Davvero i filosofi sono inadatti a governare?

di Armando Massarenti (Corriere La Lettura 6/4/14)

«In mezzo al mare / con la nera nave veniamo trascinati / fiaccati da una terribile tempesta». L’allegoria della nave che rappresenta la crisi dello Stato è antica: la si incontra già in un frammento del poeta lirico greco Alceo e, nella sua forma forse più celebre, nel VI libro della Repubblica di Platone, di cui esce per Marsilio in questi giorni una bella edizione a cura di Franco Ferrari con il titolo Il governo dei filosofi. Qui vediamo un capitano non del tutto competente di cose nautiche, ma espertissimo di astronomia e metereologia, che viene spodestato dai membri della ciurma, completamente incompetenti, i quali s’azzuffano per mettere le mani sul timone, sostenendo che solo stando al timone si può apprendere l’arte del governare la nave. Con quest’esempio Socrate risponde alla provocazione di Adimanto, il quale sostiene che chi si occupa di filosofia oltre il ristretto periodo dell’età scolare, diviene un uomo del tutto inutile alla città, un originale con la testa tra le nuvole. L’esempio di Socrate è eloquente: il capitano s’accosta all’arte nautica da lontano, applicando le regole del ragionamento speculativo alla prassi della navigazione; ma purtroppo è considerato dalla ciurma uno che discute di cose senza senso. Con questo esempio, e prima di esporre la sua utopia politica, Platone ci tiene a sfatare il mito negativo della filosofia diffuso ad Atene. Non è vero che il vero filosofo sia privo di talento nella vita pratica: al contrario, solo chi ha la visione di cosa sia il Bene in sé può, più di chiunque altro, sforzarsi di offrirne una realizzazione – per quanto sempre assai imperfetta e inadeguata – nel mondo della storia. La cattiva fama dei filosofi, considerati uomini bizzarri e capricciosi – si ricordi la rappresentazione che di Socrate dà il comico Aristofane – proviene, secondo Platone, dalla ciarlataneria dei sofisti che la gente scambia per filosofi. La vera filosofia, invece, è assai utile nella gestione dello Stato. È, anzi, indispensabile. Operando una distinzione tra i due procedimenti intellettivi superiori non fondati sull’opinione, la diánoia e la nóêsis, Platone osserva come l’ultima, ovvero la dialettica, sia lo strumento privilegiato di cui dovrebbe servirsi chiunque governa. Il ragionamento dialettico, che dalle ipotesi giunge a cause certe, è fondamento del lógos, è un metodo per discutere proficuamente ogni emergenza politica all’ordine del giorno, di qualsiasi ambito si tratti. Pertanto Platone sottolinea, nel VI libro, come non solo sarebbe utile avere i filosofi al governo, ma lo sarebbe altrettanto o forse più se i governanti stessi si convertissero alla filosofia, come a uno strumento che dovrebbe garantire un’applicazione pratica del Bene e della Giustizia che sia il meno lontano possibile dalle forme assolute di Bene e di Giustizia. Ma da un punto di vista più generale, se torniamo alla nave di Alceo, potremmo chiederci di che tipo di competenza deve essere in possesso il politico. Per Platone il politico democratico nella vita concreta della polis alla fine si riduce essenzialmente a essere un demagogo, ossia privo di competenze circoscrivibili e universalizzabili e capace solo di persuadere le anime o di orientarle al piacere. Non al bene, dunque. Né alla conoscenza. Forse c’è un briciolo di attualità in tutto questo.

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