Educarsi allo scetticismo: ancora sulla #post-verità

Prefazione di Mario Pireddu per il “Manuale per difendersi dalla Post-Verità“, di Gianluigi Bonanomi, Rossella Dolce, Marco Giacomello, Fiorenzo Pilla e pubblicato da Ledizioni.

Il gennaio del 2017 sarà ricordato tra le altre cose per l’avvio turbolento della presidenza Trump negli Stati Uniti, e per la sua peculiare relazione con i fatti. Già nel 2016, d’altronde, l’intera campagna elettorale era stata caratterizzata dal continuo riferimento alle cosiddette fake news, con accuse reciproche da parte di tutti i contendenti in merito alla paternità delle stesse. In Europa era successo qualcosa di simile durante i mesi di campagna elettorale per la Brexit, laddove gli sconfitti hanno accusato i sostenitori del “Leave” di aver costruito una narrazione fondata sulla menzogna e su proposte irrealizzabili.

L’utilizzo del termine “post-verità” è così diventato centrale nel dibattito globale sulla correttezza delle informazioni, e più in generale ha funzionato da catalizzatore – non senza molte semplificazioni e distorsioni – per l’approfondimento di questioni che sono da sempre fondamentali per comprendere lo stato di salute delle democrazie.

“Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”, scriveva Luigi Einaudi nel 1955 in una delle sue Prediche inutili: “non ci si decide per ostentazione velleitaria infeconda”. La più celebre Predica ruotava tutta intorno alle criticità delle leggi frettolose, inapplicabili se non a costo di sotterfugi, e prodotte da chi “prima di studiare, sa già quel che deve dire”. Tra coloro che utilizzano oggi il termine “post-verità” vi è chi ricorda – come gli autori dell’utile guida che avete tra le mani – che non si fa riferimento a un’epoca che verrebbe dopo altre epoche storiche, ma a un tempo in cui alla verità dei fatti non si presta più attenzione. Non si tratterebbe dunque di un problema cronologico ma della perdita di importanza della verità sia nell’informare che nell’informarsi. È una distinzione importante, e però il problema della cronologia resta: la perdita di importanza della verità è tale rispetto a qualcosa che esisteva prima di ora: una (presunta) maggiore importanza della verità nell’informare e nell’informarsi. La domanda che lascio a chi legge, e che viene suggerita anche durante la lettura di questo manuale, è la seguente: quanto peso abbiamo attribuito e attribuiamo realmente alla verità oggettiva nella nostra storia di esseri umani?

La risposta non è semplice, e probabilmente non ne esiste una definitiva, ma certo è che qui si intrecciano storie personali, vicende collettive e responsabilità istituzionali, professionali, accademiche e scientifiche. Sappiamo che i sistemi autoritari e totalitari hanno un rapporto del tutto distorto con la verità, e dunque dobbiamo concentrarci sulle democrazie e sui sistemi che – almeno in linea teorica – privilegiano laicamente i fatti e non censurano la libertà di espressione. Il nodo è tutto qui: se Kellyanne Conway – direttrice della campagna elettorale di Donald Trump e ora Counselor to the President – sembra non farsi scrupoli nel proporre una visione grottesca di “alternative facts” per rispondere alle critiche di giornalisti e oppositori, è perché sta portando all’estremo qualcosa che già esisteva, e da cui ben pochi in politica e nel giornalismo sono immuni. Nella stessa Predica su citata, Einaudi raccontava del problema del decisore nel trovarsi davanti due rapporti – uno di maggioranza e uno di minoranza – sull’Istituto di Ricostruzione Industriale (I.R.I.): due rapporti sullo stesso problema, realizzati entrambi da persone competenti, ma estremamente differenti.

Sappiamo da tempo che le democrazie non sono sistemi perfetti e che vivono di contraddizioni: tra le prime cose che si studiano nei corsi di comunicazione e giornalismo, insieme alle regole della buona professione vi è l’analisi dei sistemi editoriali e del loro rapporto con i sistemi economici, industriali e politici. Riuscire a ottenere una buona e corretta informazione non è mai stato semplice, perché ben pochi dei soggetti in gioco sono disinteressati, e a dirla tutta gli stessi cittadini non sono sempre interessati alla “verità oggettiva delle cose”. Per il giornalismo nel diritto esiste persino il concetto di “verità putativa”, che riguarda una falsa verità pubblicata ma ottenuta con approfondimento, ricerca e “buona fede”, il riconoscimento della quale è a discrezione del giudice. A tutela della libertà d’informazione e del diritto di cronaca, il problema del “vero” si sposta dunque dal fatto in sé alla reale o millantata buona fede del giornalista. La democrazia è un sistema ben più complesso rispetto ai regimi autoritari, proprio perché deve tenere conto dei diritti di molti e non solo di pochi. Quelli democratici sono tra le altre cose dei sistemi concepiti per regolare tutti gli interessi in contrapposizione tra loro, e nello specifico – almeno teoricamente – per fare gli interessi dei molti sui pochi. Quel che accade nella pratica è qualcosa di molto più complesso, e oggi con i social media e la circolazione delle notizie online il livello di complessità non fa che aumentare. Aumenta enormemente la quantità di informazioni, notizie e contenuti che abbiamo a disposizione rispetto all’epoca pre-Internet. Aumentano i buoni contenuti, aumentano i contenuti mediocri, e aumentano i pessimi contenuti. È a partire da questo, oltre che da interessi particolari, che in vari paesi vengono avanzate proposte di legge pensate per “difendere i cittadini dalle fake news” e che in realtà hanno tutta l’aria di soluzioni peggiori del problema.

Il manuale che state per leggere aiuta invece a capire che la strada più corretta – e democratica – non è quella della censura ma quella dell’educazione: il libro offre infatti diversi strumenti utili a decifrare la realtà contemporanea, a comprendere il perché di alcuni fenomeni e a prendere atto della necessità di formazione e autoformazione continua per tutti, a partire dalle scuole. Il confine tra libertà di espressione e misinformation (fake news, propaganda, click bait, notizie riportate in modo fazioso o parzialmente, etc.) è sottile, e va detto – ricordando che il reato di diffamazione esiste già in molti ordinamenti – che la strada delle soluzioni punitive e del controllo centralizzato è qualcosa che abbiamo già sperimentato, e che ha sempre funzionato in difesa degli interessi dei pochi e non dei molti.

Alla fine del Quattrocento già si inveiva contro la stampa per via della democratizzazione della scrittura e della pubblicazione, e sappiamo com’è andata per la libertà di stampa e di espressione nei secoli successivi. Riproporre vecchie soluzioni non è forse la cosa migliore che possiamo fare, soprattutto quando si scambia un problema culturale per problema tecnologico. Se qualcuno pubblica un link a un articolo che presenta il bicarbonato come cura definitiva contro il cancro, ciò su cui ci si dovrebbe concentrare è la generale povertà culturale (scientifica ma non solo) della popolazione, non l’entità della pena da comminare al malcapitato. Le leggi per punire i produttori consapevoli di notizie diffamatorie, razziste etc. esistono già, e punire gli utenti dei social per aver creduto a questa o quella notizia non pare decisamente la soluzione al problema della misinformation. La maggior parte delle proposte punitive – che spesso non riguarda il sistema giornalistico, pure pienamente coinvolto nella diffusione di fake news e nella proliferazione di misinformation ma strettamente legato a quello politico – appare allora come insieme di soluzioni utili all’aumento di controllo istituzionale sulla “verità” più che alla tutela del cittadino. Affrontare invece il tema della povertà culturale diffusa comporterebbe ragionare sul tipo di politiche e di investimenti degli ultimi decenni in materia di istruzione, ricerca, università, cultura e arte. Questione più scomoda, quella dei tagli a questi settori strategici, e sulla quale sicuramente esistono diverse “verità”. Più semplice dunque dare la colpa ai social media e a Internet.

Resta un ultimo punto da suggerire per una riflessione prima di lasciarvi alla lettura di questo manuale, e riguarda un punto delicato. In ambito formativo, uno degli insegnamenti tradizionalmente più utili, per chi scrive e per tanti altri, è l’invito allo scetticismo: fidarsi ciecamente di quanto ci viene detto e raccontato – anche da soggetti che sono riconosciuti come “autorità” nel loro campo – non è il modo migliore per vivere la propria vita e per contribuire alla creazione di una società diversa. Questo presuppone però un impegno e una presa in carico di responsabilità non da poco: per poter dubitare e criticare nel merito, occorre informarsi e approfondire seriamente gli argomenti presi in esame, cosa non sempre facile nella vita di tutti i giorni. Spesso non abbiamo il tempo per informarci a dovere – consultando varie fonti, studiandone l’attendibilità etc. – su ciò che leggiamo e sentiamo quotidianamente all’interno dei diversi ecosistemi comunicativi che abitiamo online e offline.

Ci affidiamo così a agenzie o istituzioni che dovrebbero fare questo lavoro per noi, che svolgono un lavoro continuo di intermediazione utile alla semplificazione della realtà e della nostra vita in società. Il problema è che – anche per colpe indiscutibili spesso rese evidenti proprio dagli ambienti online che alcuni propongono di controllare in modo centralizzato – molte delle agenzie tradizionali sono viste oggi come sempre meno affidabili. In tempi di perdita di autorità delle istituzioni tradizionali che strutturavano la nostra vita sociale e politica (famiglia, chiese, partiti politici, sindacati, corporations, governi, enti di ricerca scientifica etc.), lo scetticismo diventa allora molte volte il contrario di quel che dovrebbe essere, e viene da molti applicato indiscriminatamente a qualsiasi realtà. Per molti, poi, e non solo per quelli con pochi strumenti culturali a disposizione – lo scetticismo spesso è un modo per contrastare metodicamente proprio le poche agenzie e istituzioni affidabili. Lo ha scritto anche la ricercatrice Danah Boyd chiedendosi se la media literacy, così come concepita e insegnata negli ultimi anni, non stia cominciando a generare “fuoco amico” e a produrre schiere di scettici e critici i cui sforzi sono sistematicamente diretti contro le istituzioni più serie e verso la produzione di teorie cospirazioniste di vario tipo. Non è questa la sede per rispondere a questa domanda, ma il problema si riproporrà con più forza nei prossimi anni, se non si lavorerà tutti insieme per costruire forme di scetticismo più rigorose e ponderate. Il manuale che avete tra le mani è un passo in quella direzione.

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