#Elena una e trina fiaccola della #convivenza

Dalla sposa di #Menelao alla regina persiana, alla madre di Costantino, un filo invisibile che tiene insieme il nostro mondo

di Fernando Gentilini (La Stampa 24/9/17)

Il nome, in greco, significa fiaccola, scintilla, qualcosa che brilla. E un tempo risplendeva per tutto il mondo antico. Alla sua fortuna, in epoche diverse, contribuirono tre figure di donna: Elena di Sparta fu la più bella, Elena di Adiabene la più generosa, Elena Augusta la più santa. Le tre, a parte il nome, hanno poco da spartire. E non potrebbe essere altrimenti trattandosi della «figlia di Zeus», di una regina persiana convertita all’ebraismo e dell’imperatrice-madre dei cristiani. Eppure le loro biografie favolose sono legate da un filo invisibile, come se ciascuna rimandasse in qualche modo alle altre: traiettorie labirintiche, dimestichezza con il divino, destini che oscillano tra l’Uno e il Doppio.

Tra Sparta e Troia

Elena conteneva tutte le donne, tutti i pensieri e tutte le voci di donna. Per questo la sua bellezza sconvolgeva la mente degli uomini. Innocente e colpevole, predestinata e senza destino, disonesta e leale. Più di tutto fu un simulacro, l’esatto doppio di quella vera. Nel senso che a Troia c’era la sua ombra, mentre il corpo stava nascosto in Egitto.

Per essere la figlia di Zeus lasciò sulla terra moltissime tracce: a Sparta, nel palazzo d’oro; nell’isola Crenea, da dove salpò fuggiasca; sulla rocca di Troia, dove visse con Paride; sulle rotte tra la Fenicia, l’Egitto e Cipro, percorse con Menelao; oppure a Faro, dove fu prigioniera, o a Rodi, dove fu uccisa, o ancora sull’isola di Leuké, alle foci del Danubio, dove il suo fantasma vaga assieme a quello di Achille.

A me è capitato di sfiorarla a Micene, nella casa dove visse Schliemann durante la campagna di scavi del 1879. Ora è una modesta pensione – A la belle Hélène de Ménélas – ma le stanze sono quelle di sempre. Sul registro degli ospiti le firme di Sartre, Debussy, Woolf, Jung, Faulkner, Malaparte, Moravia… E in una vetrinetta dalle parti della reception, i versi di Quasimodo sul «sangue degli Atridi» (Micene). Elena era nell’aria, nel suo peplo luminoso. Non si vedeva, ma c’era.

Da Adiabene a Gerusalemme

Elena di Adiabene sposò il re di una provincia persiana, che era suo fratello. E si convertì all’ebraismo seguendo l’esempio del figlio. Secondo lo storico ebreo Flavio Giuseppe, arrivò a Gerusalemme all’inizio del primo secolo. C’era una carestia, e la regina distribuì enormi quantità di grano e di fichi acquistati in Egitto. Poi fece voto di astinenza, secondo la tradizione, e offrì al Tempio un candelabro (menorah) e una placca d’oro.

Ho cercato il suo sarcofago al Museo d’Israele, depistato da una foto sul web. Ma poi l’ho trovato al Louvre, tra i reperti degli scavi in Terra Santa di Felix de Soulcy (di lato c’è inciso il suo nome persiano, Saddan, sia in ebraico sia in aramaico). La tomba regale è a Gerusalemme, lungo la via che va verso Nablus; come pure i resti del suo palazzo, sotto un parcheggio vicino alle mura di Solimano il Magnifico.

I preti siriaci e armeni raccontano altre storie. Perché per essi Elena è anzitutto la moglie di Abgal, il re siriaco di Edessa che scriveva a Gesù. Elena di Edessa sarebbe dunque il doppio di quella di Adiabene. Non avrebbe scelto l’ebraismo, ma il cristianesimo. Non sarebbe persiana, ma siriaca o armena. E a Gerusalemme avrebbe visitato i luoghi della Passione tre secoli prima di Elena Augusta…

La santa-imperatrice

Elena di Costantinopoli si dice che sia nata a Drepanum, in Asia Minore, rinominata Helenopolis da suo figlio Costantino. Però potrebbe pure essere nata nei Balcani, in Palestina o in qualsiasi altro angolo dell’impero romano. Nel suo unico romanzo storico (Elena), Evelin Waugh riprende una vecchia leggenda e fa nascere la futura santa-imperatrice dei cristiani tra i Celti, a Colchester, figlia di un capo di nome Coel che discendeva da Priamo.

Waugh inventa sapientemente, ed è per questo che il suo romanzo è più vero del vero. Le nozze con Costanzo Cloro, la nascita di Costantino a Niš, gli anni in Dalmazia a crescere il bambino e quelli in solitudine a Trèves, abbandonata dallo sposo e lontana dal figlio. Rivedrà Costantino alcuni anni dopo, sul suo trono imperiale. E a quel punto capirà per sempre di avere una missione da compiere.

Elena Augusta partì per Gerusalemme nel 326, alla ricerca della Vera Croce del Cristo. E la ritrovò dove c’è ora la cappella che porta il suo nome, nella basilica del Santo Sepolcro. La salvezza degli uomini (e dell’impero) non stava dunque sepolta a Troia, come aveva fantasticato da bambina leggendo i poemi di Omero. Stava nascosta a Gerusalemme, sul fondo di una cisterna. Pareva un semplice pezzo di legno, e invece avrebbe cambiato le sorti del mondo.

Vedere l’invisibile

Per lo scrittore israeliano Yuval Noah Harari (Sapiens. Da animali a dèi. Breve storia dell’umanità), la capacità di immaginare ciò che non esiste è una prerogativa della nostra specie. Ed è grazie alle credenze magiche, mitologiche e religiose che i sapiens hanno formato le più grandi tribù del pianeta e sottomesso tutte le altre specie.

Finché saremo in grado di immaginare e comunicare l’invisibile, esisterà il nostro mondo – sembra suggerire Harari rispolverando la lezione di James Frazer (Il ramo d’oro). Che poi è il motivo per cui continuiamo a costruire pantheon e a popolarli con le idee e i fantasmi che ci sono più cari.

Elena di Sparta, Elena di Adiabene ed Elena Augusta sono da sempre oggetto della nostra attenzione per ragioni diverse: storico-letterarie, identitarie, filosofiche, religiose… Ed è facendo brillare la loro fiaccola che contribuiamo a realizzare ogni giorno il miracolo della convivenza e della collaborazione tra gli uomini.

Ciò che ci rende unici è la capacità di vedere l’invisibile, di utilizzare immagini simboliche come collante del nostro stare insieme. È stupefacente che alcuni di noi si riconoscano nel peplo della figlia di Zeus, o nella menorah della regina di Adiabene, oppure nel legno della Vera Croce della santa-imperatrice, senza averli mai visti, toccati o odorati, e senza neanche essere sicuri che esistano… Eppure è così che funziona la mente degli uomini. Ed è per questo che dobbiamo adorare il nome di Elena.

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