Fuggiaschi e reietti, cioè #Romani
#Mondolatino. Una docente universitaria di Storia antica ha visto il film Il primo re sulla leggenda di #Romolo
Attori convincenti, ispirazione poetica, un profondo senso del sacro
di Livia Capponi (Corriere La Lettura 27/1/17)
La leggenda di Roma è uno dei miti di fondazione più complessi del mondo, una stratificazione di storie, leggende e presunti avvenimenti. Alla fine del II millennio il Lazio e i colli erano già abitati da trenta popoli latini, insediati in villaggi e facenti capo ad Alba Longa. Il sito che sarà di Roma era incentrato su un guado del Tevere poco più a valle dell’Isola Tiberina, ai piedi dell’Aventino. Di qui passava la strada del sale (via Salaria), elemento essenziale dell’alimentazione e della conservazione dei cibi, conteso fra i popoli italici. In quest’area già un secolo prima di Romolo c’era il centro proto-urbano Septimontium, cioè «cime divise», articolato in clan di tipo tribale, le gentes, le cui terre erano coltivate dai loro servi o clientes. Erano i Latini, i cui patres più eminenti si riunivano in assemblea, pur in assenza di un centro urbano unitario.
Secondo il folklore locale, i capi primordiali del Palatino erano re discendenti da Marte: Pico (il picchio), Fauno (il lupo) e Latino, associato a una scrofa madre di trenta maialini, cioè i trenta popoli del Lazio. La mitica dinastia dei Silvi («silvani») si conclude con i fratelli Amulio e Numitore. La figlia di Numitore, vergine sacerdotessa posta a custodire il focolare di Vesta ad Alba, è ingravidata dal dio Marte; nascono così due gemelli, di cui il maggiore è Romo o Remo, il secondo Romolo. Entrambi i nomi derivano da Rumon, nome etrusco del Tevere.
Come spesso accade nei miti indoeuropei, una colpa provoca l’espulsione dalla comunità e la migrazione in un luogo nuovo sotto la guida di un nume tutelare. «Rea» Silvia è sepolta viva e i gemelli sono gettati nel Tevere in piena, ma quando le acque si ritirano la cesta contenente gli infanti si arena ai piedi del Palatino sotto un albero di fico. Allattati da una lupa nella grotta del Lupercale, sono raccolti dal porcaro Faustolo e dalla moglie Acca Larenzia, che li allevano nella loro capanna. Questi miti locali, prodotti da un mondo di contadini e pastori, sono poi offuscati dall’inserimento del racconto delle imprese epiche di stampo omerico degli eroi troiani Enea e Ascanio (o Iulo, antenato della famiglia Giulia), introdotti nel VI secolo a.C. per nobilitare un passato mitico visto come troppo primitivo.
Remo e Romolo, appresa la verità sulle loro origini, ottengono il permesso di fondare una città al guado del Tevere, nel luogo dove erano stati allevati dalla lupa. Sondano il favore di Giove osservando il volo degli uccelli, ma ne nasce una rissa in cui Remo rimane ucciso. Romolo, rimasto unico re, dichiara guerra al Septimontium, scagliando una lancia di corniolo verso il versante sud del Palatino; la lancia prodigiosamente si conficca proprio davanti alla capanna di Acca Larenzia e Faustolo e si trasforma in albero verdeggiante, segno indubitabile dell’assenso divino. La data della fondazione di Roma, 21 aprile, era già un capodanno pastorale, cioè la festa dei Parilia (da parere, partorire) dove si svolgeva la purificazione degli uomini e degli ovini, saltando su due fuochi, per propiziare i parti delle capre. Sul Palatino si svolgono altre osservazioni di uccelli che consacrano il colle quadrangolare come prima «Roma quadrata». Seconda impresa di Romolo è la creazione di un tempio di Vesta appena fuori dalle mura del Palatino, sulle pendici che poi diventeranno il Foro.
A Romolo, dunque, sarebbe da ascrivere la fondazione non solo della città, ma anche dello Stato e della dimensione politica e religiosa. Il re non è un monarca assoluto in questo stadio, ma un capo eletto dai capi tribù come intermediario con gli dei. Romolo conquista anche gli altri colli e autorizza molti popoli a stabilirsi a Roma. Secondo la leggenda, apre un tempio al «dio Asilo» che accoglie poveri, criminali, debitori, schiavi fuggitivi, e li integra nel corpo cittadino, assistito da Tito Tazio, capo dei Sabini che non era riuscito ad assoggettare. Fu un’unificazione innovativa, e per questo molto osteggiata e molto cruenta.
Il film Il primo re potrebbe essere accusato di discostarsi dalla tradizione leggendaria (comunque quasi tutta inventata), mentre cerca di rimanere fedele all’archeologia, ricostruita meticolosamente. Il regista Matteo Rovere sceglie di mettere in luce un aspetto fondamentale, peraltro documentato storicamente, e riconosciuto dagli stessi Romani, in primo luogo dall’imperatore Claudio, studioso lui stesso di storia antica: Roma sorge da un agglomerato di clan in cui confluiscono stranieri, esuli, fuggiaschi e guerrieri che da soli non sarebbero riusciti a sopravvivere. Essi sono guidati da divinità immanenti ed eterne come le forze della natura che li circonda: il fiume, il fuoco, gli animali della foresta, il volo degli uccelli carico di presagi.
Girare un film sulla fondazione di Roma era un’operazione senz’altro rischiosa. Poteva risvegliare forme di rigetto per il già sentito, lo scolastico, o verso inutili celebrazioni degli antichi fasti. Al contrario, i caratteri sono tridimensionali e umani. Il combattuto Remo, il riflessivo Romolo e la carismatica Vestale suscitano domande (tutte moderne) su che cosa sia il «sacro», allora e oggi. Gli attori, fotografati con eccelsa maestria, convincono e incantano, pure nei combattimenti. La lingua proto-latina, usata con misura e naturalezza, è la vera colonna sonora del film, poetica e commovente, perché ci trasporta in una dimensione lontanissima, quasi arcana, in cui riconosciamo istintivamente una parte di noi. È vero, gli antichi popoli del Lazio a volte assomigliano ad aborigeni australiani con i loro animali-totem; ma è una scelta precisa, che decostruisce un mito ingombrante, senza mai umiliarlo. Al centro della scena rimane la svolta dura e geniale che avvenne a Roma, se non proprio nel 753 a. C., in quel periodo: la trasformazione di bellicose tribù di uomini-lupo in una comunità nuova, retta da norme sociali, politiche e religiose, che travalicavano antichi individualismi per aspirare a qualcosa di più grande.