I #pericoli della #Rete che i genitori non riconoscono

Elena Tebano (Corriere 15/9/18)

«Ai nostri figli dobbiamo iniziare a chiedere “Oggi come va in Internet?” oltre che “Oggi come è andata a scuola?”». Arriva dritto al punto Matteo Lancini, psicoterapeuta di Milano che con la sua fondazione Minotauro si occupa spesso del disagio «digitale» degli adolescenti. «Negli ultimi anni si è sentito rimarcare più volte il principio che sia necessario controllare: un’idea di buon senso ma sempre più difficile da realizzare – spiega – visto che ormai Internet ha invaso la vita di tutti».

Il controllo totale è impossibile anche e soprattutto perché gli adolescenti conoscono il digitale molto meglio degli adulti. Lo conferma l’allarme lanciato con dolore dai genitori di Igor, il 14enne milanese morto soffocato per seguire una sfida online che spinge a a privarsi di ossigeno con un cappio al collo fino quasi a perdere conoscenza per ricavarne una sensazione simile a quella degli stupefacenti.

«Con i ragazzi la fiducia e la complicità sono essenziali, abbiamo parlato loro di tutti i rischi che conosciamo – hanno raccontato al Corriere della Sera —. Le droghe, il motorino, gli adescamenti dei pedofili in Rete, le sfide idiote come le corse per attraversare i binari mentre arriva il treno o i salti da un palazzo all’altro. Ma di questi giochi, che circolano e si aggiornano di continuo, noi adulti non sappiamo nulla e gli adolescenti, invece, tutto».

Impedire qualcosa che non si sa esista è un compito arduo per chiunque. «Per questo invece di vietare bisogna fare domande – prosegue Lancini —. Far sapere ai figli che siamo interessati alla loro vita virtuale. E che quindi sono legittimati a dire “sai mamma ho visto questo video” e a cercare consiglio e sostegno nei genitori».

Che gli adolescenti trovino contenuti negativi in Rete, è quasi inevitabile. Secondo una ricerca di «Eu Kids online» per ministero dell’Istruzione e Parole ostili, pubblicata a inizio anno, il 51% dei ragazzi di 11-17 anni ha visto sul web contenuti negativi «user generated» (cioè creati da altri utenti). Il 36% è stato esposto a immagini violente o cruente (come persone che fanno del male a altre persone o ad animali), il 33% a siti o discussioni che promuovono il razzismo e la discriminazione di minoranze, il 22% a siti dove si discute di autolesionismo o (nel 21% dei casi) di anoressia e bulimia.

«È inutile rincorrerli sul terreno del digitale, saranno sempre un passo avanti» concorda Alberto Pellai, padre di quattro figli, medico psicoterapeuta, ricercatore all’Università degli Studi di Milano e autore di Il metodo famiglia felice, come allenare i figli alla vita (De Agostini). Bisogna intervenire su altri piani: «I preadolescenti sono in un’età di vulnerabilità assoluta, le neuroscienze dimostrano che sono in balia del cervello emotivo. Cercano sensazioni forti, ma non sono ancora capaci di costruire significati e calcolare il rischio. Hanno bisogno di essere accompagnati a codificare le esperienze».

Tra quelle che i ragazzi e le ragazze non sono in grado di comprendere c’è anche la morte. «Pensiamo di proteggerli non facendogliela conoscere e così finiscono per applicarle un meccanismo da fiction. Chi si occupa di suicidio in età evolutiva si sente spesso dire dai sopravvissuti: io non mi sarei mai aspettato che fosse questa cosa qua, che fa male, che ti lascia in ospedale. La trattano come qualcosa di virtuale anche nelle sue conseguenze. È il motivo per cui le prove di sopravvivenza come quella fatta da Igor sono particolarmente pericolose». La dimensione virtuale fa saltare il controllo dei pari: «Prima le sfide si facevano di persona in un gruppo. Nel quale tutti insieme si sapeva riconoscere quando si arrivava al limite. Se sei da solo di fronte al computer tutto questo è nebulizzato. E diventa fondamentale che i genitori parlino dei casi come questo per fornire coordinate che valgano anche di fronte all’ultima novità online: io coi miei figli oggi l’ho fatto».

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