Il bisogno di #eroi    di #MaurizioBettini  

#Eneide   #Virgilio  

Che cosa facciamo noi Italiani quando «traduciamo» un testo? Lo «conduciamo dall’altra parte», perché questo significa letteralmente il verbo tra-durre. E’ come se prendessimo un romanzo portoghese di Saramago, lo conducessimo fino alla frontiera linguistica che lo separa dall’Italia e lo facessimo passare di là, rendendolo in italiano. Ma come la pensavano in proposito i Romani? Quando Plauto traduceva in latino una commedia di Menandro, anche lui conduceva dall’altra parte il testo greco? Niente affatto, lo trasformava. La parola che a Roma si usava per tradurre, ossia «vertere», significa infatti questo: mutare in modo radicale, far diventare altro – proprio come la ninfa Dafne si trasforma in alloro sotto le mani di Apollo, o Giove si muta in Anfitrione per sedurre Alcmena. Alla maniera di un dio, il traduttore romano aveva il potere della metamorfosi.

    Inutile dire che questo modo di pensare la traduzione suscita un problema di grande rilevanza. Qualsiasi metamorfosi, infatti, presuppone che, nel nuovo essere, resti traccia dello stato precedente – altrimenti, dove starebbe la metamorfosi? Quell’albero di alloro sarebbe semplicemente un albero di alloro, senza più relazione con la ninfa che fu. Invece sappiamo bene che sotto la sua corteccia palpita ancora il cuore di Dafne, proprio come dietro la sembianza di Anfitrione si cela pur sempre Giove, con le sue voglie e le sue malizie. Diciamo più esattamente: anche dopo aver subito la metamorfosi, Giove conserva la propria identità. Dunque, anche quando a subire la metamorfosi è un testo, non una persona, la nuova apparenza dovrà conservare memoria della precedente condizione, l’identità del testo deve essere preservata. Già, ma in che misura? E attraverso quali mezzi? Ecco che l’antica traduzione / metamorfosi dei Romani ci pone di fronte alla croce e alla delizia di qualsiasi traduttore, ieri come oggi: il testo divenuto altro deve restare anche lo stesso. Così come Giove, divenuto Anfitrione, deve conservare la propria identità, anche i testi tradotti debbono mantenere memoria di se stessi. Anche nei modi più inaspettati o bizzarri.

    Prendiamo le traduzioni dell’Iliade. Di regola in copertina recano la riproduzione di un vaso attico o, se va male, un cavallo di Troia. L’ultima versione inglese del poema – a partire dal duemila se ne contano almeno dieci – sfoggia invece un Cassius Clay che, in piedi sul ring, guarda dall’alto in basso l’avversario abbattuto: Ettore ko. La trovata editoriale non sarà di gran gusto, ma il segno è chiaro: l’epos non è mai morto, anzi, e adesso è Muhammad Ali che incarna la memoria contemporanea di Achille. Il fatto è che la violenza e la guerra, il viaggio e l’avventura, l’amore e l’abbandono continuano a far parte del nostro immaginario, ed è quindi naturale che si torni ciclicamente a visitarne gli incunaboli contenuti nell’epos antico.

   In questo contemporaneo ritorno dell’epos, comunque, c’è un evento che si distingue da tutti gli altri: la nuova traduzione dell’Eneide che Alessandro Fo ha appena pubblicato nella nuova NUE di Einaudi.

   La corredano un ricchissimo commento, curato da Filomena Giannotti, e un Profilo di Virgilio in cui si rispecchia intera la singolare natura del suo autore: un latinista poeta, uno studioso (professore di Letteratura Latina all’Università di Siena) che sa di modelli omerici e di tecnica virgiliana, ma che insieme ha un enorme rispetto per la poesia. E dunque mai si sognerebbe di utilizzare il suo autore solo come pretesto di escogitazioni critiche. Questa traduzione ha impegnato Fo per anni, continuativamente, caparbiamente, senza un momento di respiro. Diciamolo subito, Fo la metamorfosi l’ha fatta. La sua Eneide è un’altra, eppure è anche la stessa, questa traduzione italiana del poema virgiliano conserva piena memoria della propria precedente natura. Davanti a noi sta un testo scritto in un bellissimo italiano nel quale però, quasi ad ogni passo, echeggia anche la musica del latino che fu, ma senza che ciò produca melodie barbare e bizzarre. Merito certo della cura con cui Fo ha riproposto lo schema dell’esametro, giocando gli accenti di parola fra ritmo dattilico e spondaico; merito della meticolosa pazienza con cui si è preoccupato di rispettare la natura formulare di certi stilemi cari a Virgilio, resi sempre e dovunque nel medesimo modo, con un effetto di riecheggiamento interno quasi fascinatorio; merito dell’ottima conoscenza del latino, e di quello virgiliano in particolare, che Fo si è guadagnato in decenni di studio e di corsi universitari; ma merito soprattutto dell’essere lui stesso poeta, ossia capace di far suonare come musica parole con cui altri, al massimo, riuscirebbero a esprimere quel che hanno in mente.

    Virgilio non è un poeta qualunque: è Virgilio. Se già Silio Italico sacrificava sulla sua tomba come a un dio, se il medioevo lo considerò mago e Dante si fece guidare da lui nel suo viaggio, ci sarà pure una ragione. Tramandata e filtrata dalla lettura ininterrotta di centinaia di generazioni, l’Eneide costituisce uno dei fondamenti della nostra cultura, fa parte del nostro modo di vedere il mondo e di pensare noi stessi. Attraverso gli esametri di Virgilio possiamo leggere il nostro passato, certo, ma anche il nostro presente, storico e umano. La speranza degli esuli che per altri, innocenti, si fa lutto e violenza; l’onore che produce orrore; l’amore che porta abbandono, la morte immatura dei giovani. L’Eneide è come un’enciclopedia di noi. Per questo si meritava una traduzione che fosse, oggi, all’altezza della sua importanza culturale. Lo sappiamo, il capolavoro virgiliano costituisce da anni l’oggetto di ricerche teoriche sofisticate, talora perfino vane, nei laboratori della critica universitaria, così come offre una preziosa (ma anche abusata) fonte di informazioni per filologi, storici e antropologi del mondo antico. Prima d’ogni altra cosa, però, l’Eneide resta un poema che chiede di essere letto. Per questo in tanti serberanno riconoscenza ad Alessandro Fo per la sua fatica.

Maurizio Bettini

Questo pezzo è uscito, in forma più breve, su la Repubblica del 5 dicembre 2012.

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