Il #canto libero di #Ovidio un #classico del desiderio

NICOLA #GARDINI

(la Repubblica, 7 maggio 2017)

Quando si è finito di scrivere un libro, è tipico che salti fuori il tempo per fare qualcosa che si desiderava fare all’inizio. Io, per esempio, prima della composizione del mio libro su Ovidio avrei voluto scambiare qualche parola con l’australiano David Malouf, autore di un bellissimo romanzo sul tramonto del poeta. Non accadde. È accaduto qualche giorno fa a Sydney, per caso. Nessun convenevole, nessuna chiacchiera sulle nostre attività. Le due ore che abbiamo passato insieme in un caffè le abbiamo dedicate allo scrittore delle Metamorfosi. Malouf ha esordito senza esitazione: Ovidio è l’antico più universalmente riconosciuto nelle letterature di lingua inglese.Io ritradurrei così: Ovidio è l’antico più fortunato di tutta la letteratura occidentale. Batte lo stesso Virgilio. Non sto cercando di alimentare la competizione tra Sulmona e Mantova in cui la critica è impegnata da sempre. Né tanto meno intendo sostenere che Ovidio sia superiore a Virgilio. Dico semplicemente che Ovidio è il più classico dei classici: il più influente, il più amato (forse anche il più frainteso); il più diffuso per il globo della cultura letteraria, artistica, teatrale e musicale. La sua vasta e varia opera è presto riassunta in tre concetti essenziali, corrispondenti grosso modo a fasi ben distinte della carriera letteraria e della biografia: amore, metamorfosi, esilio. Decliniamo questi concetti in tutti gli analoghi pensabili e avremo il vocabolario della psiche europea, l’anima del nostro mondo.

Il confronto con Virgilio, però, non può mancare quando si cerca di definire la grandezza di Ovidio. Tanto fu politico e imperiale quello (donde la preferenza di Dante), quanto fu antipolitico e antimperiale questo. Le sue Metamorfosi lo condannarono all’esilio, per quanto Augusto pretendesse di punirlo per la licenziosità dell’Arte amatoria, il trattatello sulle tecniche della conquista sessuale, buono per gli uomini e per le donne. Virgilio pensava teleologicamente, Ovidio psicologicamente: l’Eneide insegna un modello di storia umana provvidenziale, svolgimento necessario e trionfale, culminante con l’instaurazione del regime augusteo; le Metamorfosi rompono la linea retta, negano la perennità della missione, insegnano che Roma sta nel flusso di tutte le cose, dunque, nell’instabilità, nella labilità, nell’incertezza. Regime augusteo sarà, ma… Ma, se tutto passa, come racconta stupendamente Pitagora in chiusura, anche quello passerà, diventerà altro. Come poteva accettare il principe tanta antipropaganda?

La metamorfosi è fondamentalmente questo: la mancanza di identità e di obiettivi. Diventare da uomo pianta e da donna sasso o ragno non è che un attimo quando si sia compresa la profonda incertezza di qualunque condizione terrena. I risvolti contestatori di una simile visione discendono prima che da un programma di sovversione dall’osservazione dell’individuo. Se mancano gli obiettivi, non manca però il desiderio, l’impulso all’obiettivo. L’homo Ovidianus non fa che desiderare. E che cosa desidera? Niente in particolare, dunque tutto. Il desiderio non ha forma, ne rielabora sempre una, come la ribollente, magmatica terra delle origini con cui il poema ha inizio. Può essere distruttivo e negativo, ma non lo è per definizione. Perfino l’empia superbia di Aracne, che sfidò Minerva in una gara di tessitura, ha qualcosa di incontestabilmente buono: lei, che Minerva lo accetti o no, è somma artista. E può essere del tutto inconsapevole, il desiderio: come nel caso del voyeur Atteone, che Diana, sorpresa nuda al bagno, muta in cervo.

Il rivoluzionario poema delle trasformazioni, dunque, non è che il dispiegarsi in scala gigante di un paradigma compiuto fin dall’inizio nel discorso amoroso. L’amante ovidiano, come osserviamo negli Amori e nell’Arte, non ha consistenza, non sa e non può sapere che cosa volere e possedere. Si plasma sull’oggetto, anzi, sugli oggetti. La brutta piace come la bella, la bassa come la alta, la colta come la rozza. Il desiderio non si ferma su una cosa; non conosce graduatorie, né rapporti tra questo e quello. Non ha prospettiva né telos. L’appagamento, anzi, distrugge il telos. Il desiderio è votato a moltiplicare e a disseminare i suoi fantasmi, o muore. Non può perseguire un fine unico; non ha fine proprio al fine di non darsi una fine. Quanto ci si è allontanati dall’Enea virgiliano e dai suoi progetti dinastici! Ma ci si è allontanati anche, per citare un altro poeta dell’amore, da Catullo, che voleva, per quanto sbagliata, solo Lesbia, e con tutta la sua promiscuità, aveva chiaro il modello vincente: l’unione matrimoniale.

Il desiderio, con Ovidio, viene a riempire il vuoto che l’istituzione del totalitarismo ha creato negli animi. C’è qualcosa di vano, nel desiderio, una sconfitta perpetua, ma anche qualcosa di profondamente vitale. Costringerà anche all’affanno (psicologia che Petrarca – l’anti-Dante – raffinerà in modo definitivo), ma libera dalle regole; è – che sia progettato o no – infrazione a quello stesso regime che l’ha sobillato e ora lo vorrebbe contenere. La trasformazione perenne della brama rispetto al variare seriale dell’oggetto bramato e bramabile rompe tutti i confini. Si esprimerà, appunto, trionfalmente nell’abolizione delle barriere più certe: quelle della specificità fisica. Via tutte le differenze, via tutte le divisioni. È questo l’Ovidio che più ci parla, il dissidente (quasi suo malgrado), il nemico delle proibizioni dittatoriali. L’Ovidio che insegue senza posa l’orizzonte.

Ho preparato il mio libro per onorare il bimillenario della morte, scegliendo per titolo da subito Con Ovidio e costruendo, al termine del lavoro, un sottotitolo con le parole “felicità” e “classico”. Stare in compagnia di un classico – Ovidio o qualunque altro – significa imparare come pensa una grande mente. La felicità ci viene dallo scoprire i meccanismi di un’immaginazione, le caratteristiche di una sensibilità, i doni di chi viene da lontano. Le parole del classico, che oggi ci parlano da una qualunque edizione economica o scolastica e non sembrano di primo acchito dire niente di straordinario e rischiano di confondersi subito tra i discorsi del nostro mondo audiovisuale, hanno viaggiato per secoli prima di arrivare a noi e hanno affrontato ogni sorta di aggressione.

Quando apriamo una qualunque edizione moderna di un classico, non apriamo semplicemente un libro: noi apriamo le braccia a un sopravvissuto. E, leggendo un classico, compiamo il gesto più civile che un essere umano possa compiere: diamo ospitalità allo straniero; gli offriamo la nostra casa. Negargli l’ascolto significherebbe favoreggiare quella violenza irrazionale – ma spesso intenzionale – che nei secoli ha disperso i quattro quinti della letteratura antica e che oggi, in vario modo, continua ad agire tra noi e nullificherà, se non ci opponiamo, molte delle nostre conquiste. Noi dobbiamo opporci alla violenza. Accogliendo l’antico, faremo simbolicamente resistenza a qualunque sopruso.

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