Il cinismo di #Cicerone

Presentò #Verre come il simbolo del #male per accelerare la sua #carriera politica

di Paolo Mieli (Corriere 2/2/16)

Per un singolare caso Cicerone e Verre morirono entrambi alla fine del 43 avanti Cristo, a pochi giorni uno dall’altro. Erano trascorsi molti anni dal celebre processo del 70 che li aveva fatti incontrare, uno nei panni dell’incalzante accusatore, l’altro in quelli del grande imputato. Ventisette anni dopo, Marco Tullio Cicerone, l’uomo che aveva puntato l’indice contro il politico corrotto, fu raggiunto, nel terribile clima delle proscrizioni che si instaurò dopo l’assassinio di Cesare, dagli sgherri di Ottaviano, Antonio e Lepido mentre stava fuggendo dalla sua villa di Formia e venne decapitato sul posto. Gaio Verre, ex propretore di Roma in Sicilia, invece, sempre su ordine di Antonio, fu trucidato a Marsiglia, dove aveva trovato riparo dopo essere stato condannato al termine del celebre dibattimento in cui si era trovato al cospetto di Cicerone. Secondo Lattanzio, Verre, poco prima di morire, ebbe la soddisfazione di venire a conoscenza del «selvaggio assassinio del suo accusatore». E poté gioirne.

Da più di duemila anni le Verrine , cioè le orazioni con cui Cicerone riuscì a inchiodare il propretore alle sue malversazioni in Sicilia sono state presentate — anche o soprattutto per la qualità di scrittura — come un modello in tutte le storie della letteratura latina. Da quel 70 a.C. mai si è avuta una denuncia per casi di corruzione in cui l’accusatore non abbia provato a riprodurne ritmo, concatenazione di argomenti e stile incalzante.

Da duemila anni è stato quasi automatico che chi si accingeva a fare insinuazioni circa la moralità di qualche uomo politico iniziasse con il definirlo «novello Verre». Lo ha fatto l’autore dei Viaggi di Gulliver , Jonathan Swift, allorché sulle pagine di «The Examiner» fece a pezzi Thomas Wharton, già Lord Luogotenente d’Irlanda. E anche il filosofo Edmund Burke, quando chiese (senza successo) l’ impeachment di Warren Hastings, ex governatore generale del Bengala. A rendere celeberrimo il procedimento giudiziario in cui Cicerone assunse il ruolo del mattatore, fu la circostanza che il dibattimento si svolse di fronte a un gran numero di spettatori: come ha osservato Emanuele Narducci in Processi ai politici nella Roma antica (Laterza) «il processo spettacolo è un’invenzione dei Romani»; e quello contro Verre fu, appunto, un processo spettacolo.

L’imputato fu descritto come un maiale incapace di porre dei limiti alla propria voracità. E sulla sistematica degradazione di Verre ad animale ha scritto cose assai acute Domenico Palumbo in Il porco espiatorio delle Verrine di Cicerone (Transeuropa Edizioni). Ma adesso Luca Fezzi in uno straordinario libro dedicato alla vicenda — Il corrotto. Un’indagine di Marco Tullio Cicerone , che sta per essere pubblicato da Laterza — cambia registro e, in merito a quella vicenda, esprime espliciti «dubbi sull’affidabilità della versione ciceroniana». Elevando Verre a «paradigma del male» e intendendo colpire in lui il sistema di Silla, che a quel punto era già andato in frantumi, l’arpinate (Cicerone era nato ad Arpino) riuscì a porre le fondamenta della propria carriera politica. Non senza qualche punta di cinismo. Talché su Cicerone torna qui il giudizio «politico» che ne diede Theodor Mommsen nella Storia di Roma antica (Sansoni): «Come uomo di Stato, senza perspicacia, senza opinioni e senza fini, egli ha successivamente figurato come democratico, come aristocratico e come strumento dei monarchi, e non è mai stato altro che un egoista di vista corta». Quanto alla fattispecie del processo a Verre, scrive Fezzi, «nella ricostruzione ciceroniana della “carriera criminale” dell’imputato, molto, a ben vedere, potrebbe essere messo in discussione». E per quel che riguarda l’operato di Verre in Sicilia, insiste Fezzi, «l’impressione — in noi molto forte — è che l’indagine ciceroniana propriamente intesa abbia presto ceduto il passo all’organizzazione e, forse, alla manipolazione delle prove».

La carriera politica di Verre era iniziata nell’85 a.C. e la prima accusa per peculato la dovette affrontare (uscendone illeso) già nell’84. Era stato poi, tra l’83 e l’82, seguace di Silla al pari di Gneo Cornelio Dolabella, come lui accusato di concussione e condannato all’esilio, dove avrebbe trovato la morte. Verre invece riuscì a salvarsi, tradendo personaggi più importanti di lui. Quello di Silla è un tema importante agli effetti del nostro discorso dal momento che il 70, l’anno del processo, fu quello che vide il crollo definitivo dell’«ordine» da lui imposto dodici anni prima, con le efferate liste di proscrizione volte a consolidare il potere conquistato dopo che ebbe sconfitto Mitridate VI, re del Ponto. Nel 70 erano trascorsi otto anni da quando Silla era morto: Verre apparteneva al ceto sillano soccombente, faceva parte di un sistema che dal 71 (e forse da prima) dava già vistosi segni di cedimento. Cicerone fu colui che, tramite quel celebre processo, per conto degli emergenti — che guardavano ai consoli Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo Magno — procedette al definitivo «smantellamento» di un «regime» ormai già defunto .

L’ incarico di Verre in Sicilia doveva durare per un solo anno, il 73. Ma l’uomo che avrebbe dovuto subentrargli, l’ex pretore Quinto Arrio, era stato impegnato a fronteggiare la rivolta degli schiavi capeggiata da Spartaco, e così il mandato siciliano a Verre fu rinnovato dal Senato romano per ben due volte. Forse anche a compensarlo per aver «reso sicuri i litorali prossimi alla penisola», impedendo lo sbarco — in una Sicilia dall’inquietante «passato di rivolte servili» — degli schiavi spinti a sud dalle armate di Crasso. Verre si era poi dedicato con abnegazione alla riscossione della principale «decima», quella relativa ai cereali (grano e orzo), «in gran parte destinata, si pensa, agli eserciti romani» (l’isola era consacrata a Cerere e a Libera e si riteneva che proprio su quella terra, più precisamente nei pressi di Enna, l’umanità avesse iniziato a coltivare i cereali). La Sicilia aveva un ruolo fondamentale nell’approvvigionamento di Roma, tant’è che già nel 184 Marco Porcio Catone l’aveva definita «granaio della repubblica e nutrice della plebe romana». E come agì Verre? Da tempo gli storici sono concordi nell’affermare, pur con differenti notazioni, che il propretore assolse al suo compito con puntualità ed efficacia. E, argomenta Fezzi, fu anche un grande innovatore. Ma allora perché quelle accuse? Fu forse Verre l’unico uomo politico del suo tempo che approfittò del proprio incarico per arricchirsi?

No. Anzi, in provincia si andava proprio per rubare. Era considerato «quasi lecito» l’arricchirsi «onestamente» come lo stesso Cicerone aveva fatto nel biennio 51-50 ai tempi in cui si era dedicato al governo della Cilicia. Questa circostanza, scrive Fezzi, «doveva essere nota a tutti» e sarebbe stata anche accettata, se solo Verre non avesse «oltrepassato i limiti della decenza». Il politico, «una volta copertosi di debiti poteva rifarsi con un incarico in provincia o, addirittura, con il governo della stessa». A quel punto «il diretto interessato e i suoi creditori dovevano augurarsi che le probabili appropriazioni illecite restassero impunite». Nel caso di Verre, ciò non avvenne e fu per qualche suo eccesso, ma soprattutto per ragioni squisitamente politiche. Quelle, di cui si è detto, attinenti all’abbattimento dell’ordine sillano e al cambio di regime.

Una volta condannato, Verre lasciò la Sicilia di nascosto. Ma quando si ebbe notizia della sua «fuga», ci fu un finimondo. Si era appena imbarcato e «in varie città si verificarono tumulti spontanei ed episodi che a noi moderni ricordano ben collaudati scenari di fine regime»; le statue dedicategli nel triennio — secondo una prassi che può essere considerata di dubbio gusto ma a quei tempi consolidata — «furono abbattute o rimosse, lasciando spesso, a voluta testimonianza, ormai vuoti piedistalli iscritti» .

A Taormina «si volle che la base di un monumento restasse a memoria della distruzione». A Tindari, la statua equestre fu lasciata senza cavaliere e una, eretta su un piedistallo che la faceva più alta di tutte le altre, fu abbattuta. A Lentini, «luogo pur povero di monumenti», stessa sorte «per l’unica scultura che lo rappresentava». Neppure a Siracusa, sede del governatore, «la folla sentì ragioni: furono mandate in frantumi le statue collocate nel luogo più frequentato e sacro, all’ingresso e nel vestibolo del tempio di Serapide». A Centuripe, la distruzione delle statue di Verre fu data addirittura in appalto.

Chi difese Verre? Quinto Ortensio Ortalo fu il suo straordinario difensore. Provò a scansare Cicerone e ad avere come avversario Quinto Cecilio Nigro, «accusatore tanto debole da rendere superflua persino la corruzione della giuria» (Nigro, temevano i siciliani, «più che produrre documenti, si sarebbe impegnato a farli sparire»). Ma Ortalo non riuscì nell’intento. Allora puntò su tattiche dilatorie: il processo non doveva chiudersi tra maggio e luglio del 70, dal momento che in agosto sarebbero iniziati i ludi votivi di Pompeo, ai quali sarebbero seguiti i ludi romani, poi quelli per la vittoria di Silla e infine i ludi plebei. E ogni volta il dibattimento sarebbe stato interrotto per poi riprendere e interrompersi di nuovo: così avanti all’infinito. Ma fallì anche quella volta. Poi, in ogni caso, Ortalo seppe duellare con Cicerone abilmente. Gravava però anche su di lui l’appartenenza al vecchio mondo di Silla.

Prima dell’inizio del processo, Cicerone fece un viaggio di ricognizione in Sicilia, nel corso del quale percorse seicento chilometri e si dedicò ad una raccolta diretta delle prove (nelle Verrine sono menzionati ben quarantotto centri siciliani da lui visitati). Le città, ad eccezione di Messina, collaborarono con lui. Preziose informazioni furono fornite da Cleomene ed Escrione due personalità di Siracusa costrette a condividere con Verre anche le proprie mogli, la bellissima Nice e Pipa (o Pipera). Tra coloro che lo tradirono, Diodoro di Malta, che era riuscito a fuggire dalla Sicilia portando con se il vasellame su cui Verre aveva puntato una ostinata attenzione. E il nobile Stenio di Terme, che aveva dato ospitalità al governatore e ne era stato ripagato con il furto di vasi di bronzo, quadri e argenti. Fin qui Stenio non aveva protestato, ma quando Verre pretese di portare via con sé altre statue bronzee, quelle che ornavano la città, si mise di traverso. Verre reagì con stizza, lasciò la sua casa e si trasferì da un altro nobile, Agatino: lì «nel giro di una sola notte» divenne anche l’amante di sua figlia, sposata (della quale, si giustificò, «aveva già sentito parlare»).

Questo suo debole per le belle donne lo aveva già manifestato prima di trasferirsi in Sicilia. Nel corso di una importante missione diplomatica presso sovrani alleati di Roma, aveva fatto sosta a Lampsaco sull’Ellesponto, ospite di un certo Gianitore. Di lì aveva mandato un suo scagnozzo, Rubrio, da un personaggio tra i più in vista della città, Filodamo, affinché gli cedesse la sua «virtuosa figlia». Al rifiuto di Filodamo, Rubrio aveva reagito con la forza e la storia sarebbe finita molto male, se una folla inferocita non avesse costretto l’uomo di Verre a soprassedere.

Queste però non erano «prove» che potevano esser fatte valere in un processo come quello del 70. I conti, dunque, non tornano. Ma sarebbe sbagliato, scrive Fezzi, «ridurre l’intera vicenda a un complotto, magari in chiave “popolare” ai danni del governatore “ottimate” della Sicilia». Allo stesso tempo, «se è vero che in un accusatore non si può certo pretendere l’equilibrio di un giudice, sembra altrettanto evidente che le imputazioni che affollano le Verrine non possano essere state manipolate nella loro interezza». In ogni caso furono altre ragioni a decidere la sorte di Verre. Ragioni politiche. Tant’è che, ad un accurato esame storico, di quel processo, sotto il profilo giuridico, resta in piedi poco. Molto poco .

       

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