Il dibattito delle #idee

#Aristotele contro i talk show

Quattro universitari interrogano lo studioso di Platone a partire dalla nuova storia del #pensiero #antico di cui è direttore scientifico. Conoscere la #cultura classica serve a prendere le distanze dal mondo in cui viviamo. E ci aiuta a combattere le pressioni conformiste che nella polis venivano dall’urlo della folla, oggi dalla tirannia dei sondaggi

La giustizia diventa l’utile del più forte se non si individuano valori universali che vengano prima della legge

Ma oggi il problema è definire che cos’è #buono o #giusto

a cura di Antonio Carioti (Corriere La Lettura 10/4/16)

Se dovesse consigliare a un giovane un testo da leggere, il filosofo Mario Vegetti suggerirebbe la Repubblica di Platone, cui ha dedicato studi approfonditi. Se dovesse indicare tre autori canonici — a parte Platone — citerebbe Aristotele, Kant e Hegel; con un posto di riserva per Marx. Eppure nella nuova Storia della filosofia antica edita da Carocci, di cui Vegetti è direttore scientifico con Franco Trabattoni, Platone e Aristotele occupano solo un volume su quattro. È appunto a partire da quest’opera che «la Lettura» ha chiesto a due studenti magistrali di Filosofia e due di Lettere classiche dell’Università Statale di Milano, tra i 22 e i 23 anni, di «interrogare» Vegetti sulle questioni a loro avviso più interessanti in fatto di rapporti tra pensiero classico e mondo attuale.

MARCO PELUCCHI — Professore, perché una nuova Storia della filosofia antica ?

MARIO VEGETTI — Innanzitutto abbiamo ridistribuito i pesi, riducendo il rilievo del periodo classico (V-IV secolo a.C.), che di solito fa la parte del leone, e ampliando lo spazio della filosofia ellenistica e di quella dell’età imperiale romana. Va superato il pregiudizio di Hegel per cui dopo Aristotele la filosofia antica entra in decadenza. Al contrario il periodo ellenistico è fondamentale per l’etica, la logica, in fondo anche la fisica. E il pensiero dell’età imperiale si sviluppa in un mondo globalizzato sotto il dominio di Roma, con un incontro-scontro tra filosofia, nuovi culti, religioni di salvezza che lo rende ricco e problematico. Inoltre abbiamo ripristinato un’attenzione alla storia della scienza in età antica, che negli ultimi tempi si era ridotta, e abbiamo dato grande spazio alla politica.

MARCO PELUCCHI — Che cosa significa riproporre un approccio storico alla filosofia?

MARIO VEGETTI — Non credo, come tendono a pensare gli ermeneuti, che l’unico oggetto della filosofia sia la sua tradizione. C’è tutto un mondo là fuori che va interrogato, oltre i territori già esplorati dai nostri studi. Però se la filosofia perde il contatto con la tradizione s’impoverisce, perché nel pensiero antico c’è un laboratorio enorme di problemi e soluzioni. Una storia della filosofia concepita in modo chiuso e specialistico rende inaccessibile quel patrimonio, mentre noi abbiamo cercato di aprire le porte del laboratorio alla riflessione contemporanea.

MARCO PROCOPIO — Ma ha senso fare filosofia oggi?

MARIO VEGETTI — Quando una domanda pone una questione di senso, entriamo in campo filosofico. Chiedersi se abbia senso fare filosofia è quindi di per sé un’interrogazione filosofica. Da quando si è separata dalla ricerca scientifica, la filosofia si dedica al senso dell’esistenza, della politica, del passato, del futuro. Inoltre restano di sua pertinenza questioni di epistemologia, di teoria dell’argomentazione, di ontologia. C’è però un altro punto che mi preme sottolineare, di fronte alle chiacchiere che dominano la scena pubblica. Se c’è un lavoro che la filosofia può e deve fare, a partire dalla scuola, è mettere ordine nel modo di pensare. Viviamo in un’epoca di grande disordine mentale. Si parla per slogan, frasi fatte, iterazioni retoriche. Ci si confronta con gli strilli, le urla, gli insulti. Anche le persone in buona fede faticano a costruire un ragionamento che abbia pretese di validità generale. Se sostengo una tesi, devo definire quali argomenti la possono convalidare di fronte all’interlocutore e quali invece eventualmente permetterebbero di confutarla. Ma se mi limito a ripetere degli slogan, il mio è un atteggiamento oppressivo. C’è quindi un bisogno disperato dell’ordine mentale che solo la filosofia può dare. Succede a tutti i livelli, ma lo spettacolo più eloquente sono i talk show televisivi: gli stessi filosofi che vi partecipano non fanno che aggiungere confusione. Non per colpa loro: è il formato che genera il caos. In quelle trasmissioni, se qualcuno cerca di sviluppare un ragionamento, dopo due minuti lo interrompono. Così il pensiero viene di fatto impedito. Se la filosofia, oltre a riproporre le questioni di senso, riuscisse a riordinare le forme della comunicazione, renderebbe un buon servizio a tutti.

MARCO PROCOPIO — Ma perché studiare proprio la filosofia antica?

MARIO VEGETTI — Me ne occupo da una vita, ma non cessa di meravigliarmi la ricchezza delle discussioni e idee (alcune grandiose, alcune bizzarre, altre folli) proposte dagli antichi in fatto di etica, politica, metafisica, teologia, cosmologia. È un ventaglio immenso di tesi rivali. Ciò è avvenuto perché la filosofia antica è stata la prima e per certi aspetti anche l’ultima forma di pensiero che si è sviluppata senza presupporre un libro sacro, una rivelazione, un’autorità di riferimento. Non c’era una Chiesa ad Atene, né qualcosa di analogo. Quindi la filosofia antica è il territorio della libertà di pensiero. Ciò vale anche per altri settori del sapere. Ad esempio in Grecia non esistevano facoltà di medicina, quindi i medici erano autoproclamati. Questo aveva degli inconvenienti, è chiaro, perché qualsiasi ciarlatano poteva esercitare la professione. Ma la medicina classica, da Ippocrate a Galeno, ebbe uno straordinario sviluppo proprio perché non era obbligata a rispettare canoni fissi. Nell’antico Egitto, al contrario, il medico che praticasse una terapia non prevista dai libri sacerdotali poteva essere punito anche con la morte. L’assenza di vincoli permetteva di sperimentare e determinava una forte competizione: i medici dovevano dimostrare nei fatti di saper fare il loro mestiere. Lo stesso avveniva per il pensiero: il fascino della filosofia antica, rispetto ad altre epoche, risiede nell’assoluta libertà del confronto tra le idee.

FEDERICA GALANTE — Però Socrate venne condannato a morte con l’accusa di empietà.

MARIO VEGETTI — È vero. E c’è anche il caso di Anassagora, allontanato da Atene. D’altronde Platone lamenta spesso la pressione che la comunità politica, la voce della folla, esercita sui singoli per indurli al conformismo. Resta però l’assenza di un libro dogmatico e di un’istituzione che lo faccia rispettare: questo è decisivo. Persino sotto le grandi monarchie ellenistiche — regimi che peraltro io, un po’ controcorrente, prediligo rispetto a certi aspetti della democrazia classica — magari si doveva rendere un tributo al re, ma nessuno era obbligato a essere stoico piuttosto che scettico o epicureo: la libertà di pensiero non era minacciata. Consentitemi qui di tornare alla medicina: proprio i sovrani ellenistici favorirono il progresso dell’anatomia attraverso la dissezione dei cadaveri o addirittura la vivisezione dei condannati a morte, una pratica deplorevole, ma utile allo sviluppo della scienza.

MARCO PROCOPIO — L’influenza omologante della folla denunciata da Platone si avverte anche oggi?

MARIO VEGETTI — Nella polis c’era una pressione immediata, perché ci si parlava faccia a faccia. Oggi la spinta al conformismo passa attraverso i media. Platone scrive, nel libro VI della Repubblica , che chiunque abbia a che fare con la folla e le proponga programmi politici, opere letterarie o artistiche, deve uniformarsi ai suoi voleri. A me quel passo fa venire in mente i sondaggi. Qualunque politico oggi, prima di avanzare una proposta, commissiona un sondaggio per verificare l’orientamento. Il posto che aveva l’urlo della folla nelle assemblee ateniesi è stato preso dalle indagini d’opinione, il cui terribile effetto consiste nel registrare una normalità che diventa subito normativa: tutti la pensano così e quindi così bisogna fare. È un enorme inganno.

GIULIA BERNARDINI — Che ruolo deve assumere l’intellettuale in una situazione del genere?

MARIO VEGETTI — È un problema antico. Platone scrive nella Lettera VII che ha deciso di andare a Siracusa, nel tentativo di convertire il tiranno della città alla filosofia, per non apparire un uomo capace soltanto di parole e non di azioni. Si parte da lì e si arriva all’impegno degli intellettuali novecenteschi, tipo Jean-Paul Sartre. Il mio parere personale è che ogni cittadino ha l’obbligo morale di partecipare alla vita pubblica. Ciò vale anche per i filosofi. Mi sembra più dubbio che l’intellettuale in quanto tale (non come cittadino, ma come persona dotata di una speciale competenza) possa svolgere un ruolo diretto in politica. Spesso di fronte ai problemi concreti io non so che pesci pigliare, perché da filosofo tendo a considerare le ragioni di entrambe le parti in conflitto. Così prendere una decisione diventa difficile per cui di solito è una scelta morale, non una riflessione filosofica, che ci fa inclinare per una soluzione o l’altra.

GIULIA BERNARDINI — Si possono portare nella società le riflessioni maturate in ambito accademico?

MARIO VEGETTI — Oltre alle comparsate televisive degli studiosi, oggi proliferano i festival culturali. Ma le persone che vi assistono non dicono: vado ad ascoltare Cacciari, Bodei o Vegetti. Dicono: vado a vedere . M’induce a pensare che nei festival, più dei contenuti, conti la partecipazione all’evento. Ma il guaio peggiore è che l’università, dopo le aperture degli anni Settanta, si è richiusa su se stessa. Si è creato un discrimine tra probi studiosi, che non mettono mai il naso fuori dalle aule, e presenzialisti spettacolari, che sono sempre ai talk show. Non è una situazione felice. Però dipende anche da voi giovani. Un tempo gli studenti ponevano domande di senso. Oggi non più.

MARCO PROCOPIO — La nozione di felicità, centrale nell’etica antica, oggi conserva lo stesso valore?

MARIO VEGETTI — No. Oggi la felicità è un sentimento. Il rapporto con la persona amata, una sinfonia, un tramonto ci danno momenti di felicità. Per gli antichi la felicità è un impegno a trovare una forma armonica di rapporto con l’esistenza, per stare bene con se stessi e con gli altri. Richiede un lavoro lungo, faticoso, che dura una vita. Per Aristotele sarebbe stato assurdo dire: ho provato un attimo di felicità. E avrebbe considerato una stupidaggine il diritto alla ricerca della felicità proclamato dalla Dichiarazione d’indipendenza americana.

FEDERICA GALANTE — Oggi si tende a separare la giustizia dai valori, mentre per Aristotele non si può stabilire che cosa è giusto senza una definizione di bene. Cosa ne pensa?

MARIO VEGETTI — Non credo che si possa costruire una teoria della giustizia senza fare riferimento a valori: libertà, dignità, eguaglianza, tolleranza. Altrimenti cadiamo nel positivismo, per cui la giustizia si risolve nel rispetto di norme puramente formali. Detto questo, si apre il problema di come individuare i valori. Possiamo oggi accettare un’impegnativa ipotesi platonica per cui il buono, il bello e il giusto sono idee che esistono a prescindere dalle norme vigenti? Direi di no: la questione della loro oggettività e universalità è altamente controversa. Prendiamo la tolleranza. Non è detto che sia un valore universale: per chi pratica una religione monoteista è difficile accettarla fino in fondo, perché la sua fede è per definizione totalitaria. Se pensasse che tutti hanno una parte di ragione, non sarebbe un monoteista serio. Infatti il principio di tolleranza è stato imposto dall’Illuminismo contro le tradizioni religiose. D’altronde noi ci proclamiamo tolleranti ma ci troviamo in difficoltà se incontriamo degli intolleranti. Tant’è vero che a volte li bombardiamo in nome della tolleranza.

FEDERICA GALANTE — Perché Aristotele ha più successo di Platone tra gli studiosi di filosofia politica?

MARIO VEGETTI — Aristotele presenta una sobria teoria della politica: spiega che cos’è la polis, come può funzionare, descrive le diverse forme costituzionali. Platone non è un teorico, è un visionario, immagina altri mondi possibili. Noi abbiamo bisogno anche di utopia, senza la quale le teorie politiche diventano miopi e conservatrici, però si capisce come mai gli studiosi preferiscano Aristotele. La visione aristotelica è più consona al pensiero liberale oggi dominante: afferma una relativa indipendenza dell’individuo dalla comunità cui appartiene, difende la proprietà privata e la famiglia. Platone non è democratico e tanto meno liberale. Aristotele destorifica e naturalizza. Nel I libro della sua Politica tutto esiste «per natura»: polis , famiglia, cittadino. Le forme politiche, secondo Aristotele, non sono prodotti storici, ma entità naturali, come i fenomeni del regno animale o vegetale. Così la sua teoria, che pure riguarda la polis del IV secolo a.C., è diventata buona per tutte le stagioni, in quanto ipotizza una normalità astorica. In realtà si tratta di un dispositivo insidiosissimo, che legittima per natura anche la schiavitù e la sottomissione della donna. Ma spiega anche il duraturo successo di Aristotele.

MARCO PELUCCHI — La filosofia di epoca ellenistica e imperiale, prodotto di una realtà più vicina alla nostra rispetto alla polis, ha qualcosa da dire al mondo di oggi?

MARIO VEGETTI — Non in senso diretto: quegli autori non offrono soluzioni immediatamente trasferibili ai giorni nostri. Però, secondo me, avremmo un gran bisogno di scetticismo: il primo passo per mettere ordine nel pensiero è sospendere l’adesione alle idee preconcette. Sesto Empirico considerava lo scetticismo una purga per la mente e credo che oggi una simile cura contro slogan e luoghi comuni sia un valido punto di partenza. Invece gli stoici, benché sostengano teorie che giudico bizzarre, sono attuali per il loro rigore morale. Parlo meno degli epicurei, perché per loro non nutro grandi simpatie.

GIULIA BERNARDINI — Lo studio degli autori classici a scuola serve ancora a formare i cittadini?

MARIO VEGETTI — Credo di sì, soprattutto perché aiuta i giovani a prendere le distanze, a non pensare che il mondo in cui vivono sia l’unico possibile. L’esplorazione di una realtà diversa sollecita uno sguardo distaccato, quindi più critico, sul nostro presente. Saremmo molto più poveri intellettualmente se non conoscessimo i classici. Non ne faccio una questione di radici identitarie, che in realtà vengono sempre rimodellate, di generazione in generazione, a seconda dei nostri progetti. Si dice di solito che non c’è futuro senza passato ma io sostengo la tesi opposta: non c’è passato senza futuro. Ci costruiamo un passato, selezionando quello che ci interessa della storia, in rapporto al futuro che vogliamo. Perciò le radici non sono un patrimonio da mettere in cassaforte: per produrre cultura devono essere continuamente reinterpretate e riplasmate.

MARCO PROCOPIO — Lei richiamava prima l’importanza della scienza antica. Studiarne la storia serve solo ai filosofi o anche agli scienziati?

MARIO VEGETTI — Ovviamente non si può fare il filosofo senza conoscere Aristotele, mentre un fisico può ignorare la fisica aristotelica. Tuttavia Ludovico Geymonat, uno dei miei maestri, si batté tutta la vita perché gli scienziati studiassero la storia delle loro discipline. Reputava una ricerca scientifica consapevole del percorso che ha portato allo stato attuale delle conoscenze senza dubbio migliore rispetto alla routine di laboratorio. Il pericolo per gli scienziati è la parcellizzazione: fanno un lavoro meraviglioso ma rischiano di non avere una visione d’insieme. Di recente, proprio sulla «Lettura», il fisico Carlo Rovelli ha scritto che la tanto deprecata Fisica di Aristotele è importante anche, entro certi limiti, nella parte che riguarda la teoria del movimento, purché si faccia riferimento a corpi immersi in un fluido. Mi pare un esempio di come scienziati consapevoli possano leggere utilmente le opere dei classici.

FEDERICA GALANTE — Vorrei tornare al tema della giustizia. Nella Repubblica Platone ci presenta la posizione di Trasimaco, per cui la giustizia è l’utile del più forte. E Socrate non riesce a confutarla definitivamente. Siamo condannati all’ingiustizia?

MARIO VEGETTI — Trasimaco sostiene che la legge costituisce la norma di giustizia. Dato che a promulgarla sono coloro che detengono il potere, ne discende che essi legiferano allo scopo di conservare e consolidare il loro predominio: perciò rispettare le leggi significa collaborare al governo del più forte. Questa è la prima tesi, per certi versi imbattibile, di Trasimaco. La seconda afferma invece il conseguente prevalere dell’ingiustizia. Ed è assai più debole, perché se chi governa (un tiranno o una maggioranza democratica, poco importa) stabilisce la legge in funzione del proprio potere, poi non ha motivo di trasgredirla. Infatti Socrate obietta a Trasimaco che ogni aggregazione umana deve rispettare delle norme: anche una banda di ladri non può funzionare, se i suoi membri si derubano a vicenda. La prima tesi ci riporta invece alla questione dei valori: per confutarla bisogna dimostrare che esiste un ordine di princìpi universali e oggettivi, le idee, indipendenti dalla legislazione in vigore. Così viene meno l’identità tra norma di legge e norma di giustizia sostenuta da Trasimaco. Ma per questo occorre individuare un criterio di giustizia che preceda la legge, in base al quale valutare se una norma è giusta o ingiusta, se va rispettata oppure no: un problema filosofico di assai difficile soluzione.

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