L’ #italiano degli #studenti? Ci lascia senza parole ( Il Giornale, 1Giugno 2017)
Uno studio rivela: i ragazzi (dalle medie inferiori all’università) hanno seri problemi con la lingua. Impera un minimalismo pop. E ogni pensiero poco più che elementare è ignorato. A cura di Massimo Arcangeli
Lo Zanichelli Junior è un dizionario molto ben strutturato, di 36.000 voci, 64.000 significati, 55.000 esempi, 43.000 sinonimi, contrari e analoghi, 450 note grammaticali e d’uso. Redatto da nove diversi autori, si apre con la dichiarazione di voler aiutare «gli studenti della scuola secondaria ad ampliare il lessico, approfondire la conoscenze e scrivere meglio» (Presentazione, pag. 3). Studenti che ringrazieranno. Il mondo sarà anche barocco come pensava Carlo Emilio Gadda, che scrisse una volta di sé di essere ingordo di voci doppie, triple o quadruple per dire la stessa cosa («I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni, sebbene il Re Cattolico non li abbia ancora monetati: e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo», Lingua letteraria e lingua dell’uso, 1942), ma su tanti giovani e giovanissimi, con la complicità di molti (scuola, università, editoria in testa), impera ormai un minimalismo pop in nome del quale si vorrebbe abbattere tutto ciò che appaia di ostacolo alle esigenze di una comunicazione tanto pervasiva quanto refrattaria ad accogliere anche solo un minuzzolo di pensiero complesso. È l’inganno dell’accessibilità, o l’illusione della semplicità. Farebbe rivoltare nella tomba perfino il Manzoni, con il suo «potatorio» provincialismo di bottega.
Parlano chiaro gli esiti di un test nazionale, realizzato dal sottoscritto e da Claudia Colafrancesco per l’associazione «La parola che non muore», che ha visto coinvolti quasi 900 studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado, in maggioranza liceali (più dell’80% del campione delle superiori) e, per il rimanente, iscritti ad alcuni istituti tecnici e professionali; tre quarti di loro, provenienti da una buona metà delle regioni italiane, frequentano la media superiore, i restanti la media inferiore. Agli studenti testati si è chiesto di contestualizzare – dopo averne indicato uno o più sinonimi – trenta parole più o meno «difficili», e la bassissima percentuale delle risposte corrette ottenute induce a riflettere. Più del 70% degli esaminati non ha la più pallida idea di cosa significhino desumere, futile, morigerato, ponderare, redimere, tenacia, tergiversare; sono appena meno numerosi quelli che non conoscono arguire, dirimere, indolenza, redarguire; non raggiunge il 70% la quota di chi comprende aroma, la parola – insieme a menzionare – meno impegnativa della serie. Per ponderare è stato scritto di tutto: c’è chi ha pensato a sedersi («Prego, ponderati sulla sedia») o a riposare, chi a scendere o a rinfilare («Angelo ha ponderato la sua spada»), chi a pungere, puntellare o stuzzicare, chi a ricoprire («Il divano è ponderato di polvere»), chi a svelare («Luca ha ponderato tutti i suoi segreti alla classe»).
Ma gli studenti medi non sono i soli ad avere problemi con il lessico colto dell’italiano, o con le parole che si attestano su un gradino immediatamente sopra l’uso comune, su un registro appena sostenuto, o con i termini di una formalità discreta o in ogni caso poco pronunciata. «Lui è l’adepto alla manutenzione». «L’afflizione dei nuovi manifesti». «Collimare un vuoto». «Son desueto nel dormire nel dopopranzo». «Io esimo spiegazioni». «Si è assentato da lavoro senza giustificazione. È un indigente». «Ti redimo dal tuo incarico». Sono solo alcuni degli esempi partoriti dalle 196 matricole di un corso universitario cagliaritano (141 femmine e 55 maschi) alle quali ho sottoposto, nell’autunno del 2012, un test identico a quello somministrato al precedente campione: le prime quattro confondono adepto, afflizione, collimare e desueto con addetto, affissione, colmare, solito; le restanti tre scrivono esimere, indigente e redimere, ma intendono pretendere, inadempiente, sollevare.
Abbietto, accibia, diatrima, emonumento (o emulumento), igniquo, ligore, otenebrare, perspicacie, procastinare, sorbido invece di abietto, accidia, diatriba, emolumento, iniquo, livore, ottenebrare, perspicace, procrastinare, sordido. Perle prodotte da più di un terzo di 13 studenti italiani (madrelingua) di secondo anno, di un ateneo privato padovano, interpellati con le stesse modalità su esposte. Le parole interessate, dettate in modo nitido e molto lentamente (quasi a sillabarle, nemmeno fossero vocaboli stranieri), erano qui parte di un insieme di 35 parole comprendenti algido, auspicare, caparbio, cattività, congettura, defezione, duttile, emendare, greve, indefesso, monile, nemesi, orpello, peculiare, perentorio, pernicioso, pleonastico, progenitore, relegare, strabiliante, svellere, tracotante, turpe, vacante, zelo.
Significativo, di quei 13 studenti, il numero di chi ha lasciato in bianco il rigo relativo all’una o all’altra voce, non sapendone indicare né sinonimi né esempi d’uso: 11 per ottenebrare e svellere, 10 per orpello, pleonastico, sordido, 10 per livore, nemesi, indefesso, 9 per abietto. Per alcuni di loro l’accidia è desiderio, acidità o cattiveria; la congettura è una regola, e un orpello è un rumore; un emolumento è un bonifico, e la defezione un difetto o un’imprecisione («Era presente una piccola defezione nel contratto»); la nemesi è un nemico o un antagonista, o addirittura un prologo. Per altri una persona caparbia è saggia o intelligente, una abietta è povera, inetta, incapace; dire algido è significare gelatinoso, dire greve è intendere goffo («i suoi movimenti sono difficili e grevi»); una cosa iniqua è scarsa («I fondi rimasti sono iniqui»), ingenua, indifferente o inconsapevole, una peculiare è molto similare («la descrizione è peculiare all’artefatto»). Per altri ancora vacante significa instabile; relegare vuol dire unire o assegnare; procrastinare ed emendare esprimono il valore di tramandare e stabilire. Di svellere si danno, come sinonimi, rivelare e spogliare («L’uomo non voleva svellere la donna»); progenitore viene spiegato ora con trascendenza, ora con inventore, ora con genitore non naturale; i bizzarri coprente, selvaggio e trasferente rendono zelo, cattività e duttile, ma lo zelo può anche rivelarsi un’espansione o un’apprensione. Un tracotante è un pedante, ma può essere tracotante (leggi: traboccante) anche un vaso. Ciò che è pleonastico è una pietra miliare («quello di domani sarà un evento pleonastico»), relegare è come dire affidare a qualcun altro («ha relegato i suoi doveri al fratello»; qui il galeotto è delegare), sordido è il rumore generato da una scrosciante massa d’acqua o rilevato in un ambiente («Sentii un rumore sordido provenire dalla cucina»). Sarebbe sordo, ovviamente. Ma pensiamo alla possibilità di sonorità soffocate o smorzate per le cascate del Niagara, o dell’Iguazú, e ci passa subito la voglia di andarle a vedere.
Se oggi il numero di chi scrive in modalità digitale, confrontato con quello degli scriventi dell’era predigitale (anche solo di una ventina di anni fa), è molto più elevato, va registrata, per molti giovani, l’insufficienza di una lingua (e di una logica) che abbia almeno un pizzico di riguardo per la varietà lessicale e lo spessore semantico e, più in generale, si ancori a una qualunque terra o attecchisca in un qualunque terreno. Se ne sono accorti anche gli oltre 600 accademici firmatari della lettera con cui, non è molto, si sono appellati al governo per un sollecito intervento in materia cui non è seguita, però, alcuna risposta. La settimana scorsa, in una conferenza stampa convocata in uno storico liceo romano, i 600 e più sono tornati alla carica e stavolta qualcuno, al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, si è almeno preso la briga di prendere il telefono e di chiamare, manifestando interesse per l’iniziativa, gli organizzatori della raccolta di firme. In fondo i sottoscrittori non chiedono troppo, e il loro appello è tutt’altro che vano. E comunque, riprendendo ancora Gadda: «Non esistono il troppo né il vano per una lingua».