Le virtù dei nostalgici, secondo Starobinski Sviluppano la capacità di essere critici. E di creare, con la scrittura, esperienza

«Viviamo di passioni precedute da parole, e non le avremmo provate senza di esse»

di Paolo Di Stefano (Corriere 22/4/14)

Entrare in un libro di Jean Starobinski è come addentrarsi in una foresta incantata, piena di una varietà molteplice di erbe, cespugli e alberi. Respiri un’aria fresca, guardi in alto e ti accorgi che ogni pianta ha un tronco robusto con ramificazioni fittissime e che da ciascun ramo si dipartono altri rami e rametti secondari, all’infinito, con le loro frondosità cangianti da cui filtrano luci e bagliori. È questo procedere per continui avvii e rinvii e continue aperture, a volte spaesanti, il tratto più tipico della saggistica del novantaquattrenne critico ginevrino, medico, storico della scienza e delle idee. Saggista prima di tutto, dove per saggio si intende una forma di pensiero e di scrittura, libera e mai capricciosa, dalla razionalità multiforme, aperta e dialogante. 

Come osserva opportunamente Fernando Vidal nella postfazione a L’inchiostro della malinconia (appena uscito da Einaudi), il saggio di Starobinski è una scrittura polifonica sempre in movimento. Movimento perpetuo e sinuoso, a onde e a curve, con scatti repentini e con andature più pacate. Ed è curioso che questo modo di procedere si applichi a una materia in sé lenta, se non immobile, com’è a prima vista il cuore della malinconia. In realtà, con i suoi saggi antichi e più recenti sul tema (tutti raccolti nel volume), Starobinski va a stanare il lento movimento di quella apparente immobilità. Si potrebbe dire di questo libro ciò che lo stesso studioso svizzero dice della summa di Robert Burton, un geniale erudito oxoniense del Seicento autore di una colossale Anathomy of Melancholy a cui Starobinski dedica pagine ammirate: un «libro-miniera» in cui è depositata una gran quantità di memoria letteraria e storico-scientifica. Quando parla dell’uso frequente alla citazione in Burton, Starobinski sembra parlare di se stesso: essa non è solo la compensazione di una debolezza, ma illumina il pensiero, anche se il ricorso al già detto può apparire come un «sentimento di inferiorità malinconica». Sembra di scorgere un sorriso amaro quando il critico preconizza tempi di «tabula rasa » e di totale cancellazione della memoria, in cui trionferà il linguaggio rigoroso e astratto della matematica. 

Libro-miniera, si diceva. E non potrebbe essere diversamente, visto che Starobinski si dedica all’argomento da oltre cinquant’anni, se è vero che Storia del trattamento della malinconia è il titolo della tesi di laurea presentata nel 1959 dal giovane studente di psichiatria dell’Università di Losanna. Da allora, lo studioso è tornato sulle diverse declinazioni della malinconia in molte tappe successive, rivedendo e aggiungendo, spaziando: da Omero al poeta francese contemporaneo Yves Bonnefoy, dal Medioevo e dal Rinascimento a Baudelaire, da Ippocrate a Mandel’štam. 

Il discorso di Starobinski si muove tra scienza e critica letteraria, tra storia dei concetti e analisi del linguaggio che li definisce tecnicamente e li esprime in arte. C’è un passo che chiarisce molto bene il rapporto che c’è, per Starobinski (il quale si è formato, tra l’altro, con il grande maestro di stilistica Leo Spitzer), tra le parole e le cose, oggetti inscindibili della sua ricerca. È un passo che scaturisce da una domanda: se i sentimenti preesistano alle parole che li nominano, oppure se i sentimenti si materializzino nella nostra coscienza solo dal momento in cui hanno ricevuto un nome. Starobinski risponde che si tratta di due proposizioni «vere a titolo complementare»: «Una volta nominato, avendo acquisito un’identità, un sentimento non è più veramente lo stesso. Una parola nuova condensa qualcosa di incompreso, che per l’innanzi era rimasto evanescente. Ne fa un concetto. Opera una definizione e invoca un sovrappiù di definizione: diventa materia di saggi e di trattati. Viviamo di passioni le cui parole ci precedono, e che non avremmo provato senza di esse». 

Sono le parole a renderci coscienti di un sentimento antico, a portarlo definitivamente alla luce: per questo anche la malattia è un fatto di cultura. Isolandola e classificandola diventa un’astrazione e dunque «un momento particolare di quell’avventura collettiva che è la scienza». 

È ciò che accade nel caso della «malinconia», che si conserva nel linguaggio medico sin dal V secolo a.C. pur variando in continuazione il suo campo semantico. In origine, per la verità, il termine designava un «conglomerato» di paura e tristezza persistenti, che comprendeva una vasta gamma di malesseri, tra depressione, schizofrenia, nevrosi, ansia, paranoia, delirio eccetera. La causa fisiologica additata dal pensiero medico sin dall’antichità, in opposizione a coloro che vi intravedono un’origine sovrannaturale (l’abbandono degli dèi), è la «bile nera», ovvero «la sostanza spessa, corrodente, tenebrosa che costituisce il senso letterale di “malinconia”». I passaggi suggeriti da Starobinski sono numerosi, e vanno dagli studi ippocratici e dalle dottrine mediche (Celso, Galeno eccetera), alla dicotomia tra medici che si occupano della «passione del corpo» (con trattamenti che vanno dall’elleboro ai vapori) e i filosofi, attenti piuttosto a guarire le «malattie» dell’anima (il peccato di «acedia», cioè torpore o disgusto della vita): ma se Seneca accorreva da proto-psicologo con i suoi scritti a lenire le inquietudini degli amici, il rimedio consigliato dai Padri della Chiesa alla malinconia della vita solitaria era: «Pregate e lavorate!». E Ildegarda di Bingen collegava quella nausea esistenziale al peccato originale. Nuovi concetti «psichiatrici» si inaugurano nel Settecento, quando la malinconia non è più percepita come malattia dell’umore ma come affezione nervosa dell’essere sensibile, richiedendo, accanto alle cure tradizionali (purgativi, diluenti, digestivi), approcci «morali» tesi a distruggere l’«idea esclusiva» di cui è vittima il malinconico: ecco dunque il piroettamento, ma anche, a seconda della gravità, il viaggio, le terme, la musica, la cura in famiglia. 

L’interesse precoce di Starobinski per la figura classica del «denunciatore delle maschere» si collega, secondo Vidal, agli atteggiamenti «mascheranti e mascherati» tipici dei regimi totalitari del Novecento: «Il mio primo progetto — ha ricordato Starobinski — era di farmi storico della denuncia della menzogna». Che c’entra questo con il malinconico? C’entra eccome. Il malinconico è da sempre in prima fila nella denuncia della menzogna: diffida della realtà e si vede circondato da maschere. È un malato (un folle?), ma viene percepito anche, per lungo tempo, come un essere superiore dotato di un’etica esclusiva e capace di vedere con lucidità le magagne del proprio tempo che gli altri non vedono. 

Democrito è una figura chiave. Vive in solitudine al limitare della città di Abdera e ride di tutto: i concittadini preoccupati chiamano Ippocrate perché guarisca quel grande uomo. Il medico arriva fornito di elleboro, ma si accorge a colpo d’occhio che Democrito è in perfetta salute e che semmai è il popolo a essere folle. La situazione si è rovesciata: Democrito va ascoltato e seguito. Quel Burton cui si accennava commenterà a lungo l’aneddoto e La Fontaine ne farà l’oggetto di una sua favola. Che cos’è il sorriso di Democrito? Certo, è il sintomo della malinconia: l’ilarità del filosofo è la risposta alla insensatezza universale. Ecco la funzione della satira, una lunga tradizione che risale per lo meno a Giovenale: «la malinconia — scrive Starobinski — costituisce un pretesto sufficiente per la voce satirica, per l’indignazione come per il riso (…). Con l’alibi dell’umor nero di cui si dichiara vittima, il satirico può denunciare senza remore di sorta l’andamento del mondo. L’irriverenza del malinconico non risparmierà nessuno». Il responsabile, ufficialmente, è Saturno. Per Kant il malinconico è il più adatto a provare il sentimento del sublime, ma anche il più severo «giudice di se stesso e degli altri» e non di rado «avverte il tedio di sé e del mondo». Il malinconico è insomma un protagonista della storia. 

Nell’anatomia starobinskiana della malinconia, sondata nei testi letterari, finiscono il Torquato Tasso paranoico di Goethe, «La principessa Brambilla» di Hoffmann, cui è debitore il «comico assoluto» (e satanico) di Baudelaire: al poeta dello spleen, cavallo di battaglia di Starobinski (bellissime le pagine sulla differenza tra fantasticheria «pietrificante» e sogno), si devono gli esempi migliori di «malinconia allo specchio» o riflessiva. 

Sono infiniti i modelli e i motivi che la medicina fornisce alla poesia. Ma ciò non impedisce che talvolta sia la poesia a proporre qualche rimedio e persino a proporsi come rimedio. L’ironia è la salvezza del malinconico? È un altro capitolo del libro, in cui il nostro Carlo Gozzi fa la parte del leone. Se dalla «sfasatura tra tempo interiore e tempo esterno» nasce il sentimento malinconico di alcuni personaggi shakespeariani, in Gozzi si sottolinea lo scarto tra fatto teatrale e verità vissuta: anche il suo è un rifiuto. Un atto di protesta, volontario o no, attraverso la favola ironica e l’anacronismo della sua commedia. 

Niente a che vedere con la distanza (spaziale e temporale insieme) sofferta da quel particolare soggetto malinconico che è il nostalgico. Ma questo è un capitolo a sé. «Nostalgia» è un altro neologismo che nel Seicento, in Svizzera, produce un concetto nuovo, inventa un’altra patologia. Oggi il suo uso specialistico è in declino, prevale la vulgata romantica, la sua connotazione spregiativa: non più disadattamento sociale che conduce alla morte, ma rimpianto inutile di un mondo passato. Quanti «nostalgici» nella letteratura. Scrivere, insegna Starobinski, «significa trasformare l’impossibilità di vivere in possibilità di dire». Aprendo comunque una relazione con l’altro.

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