Tu quoque, populismo

di Leonardo Clausi

Giulio #Cesare, #Bruto, Marco #Antonio: #Shakespeare infiamma le platee a Londra e a New York. Con i suoi simboli di potere e di ambizione. Attualissimi

(Espresso 25/2/18)

Se il liberismo anglosassone ha sempre tenuto a bada la demagogia, lo deve anche a Shakespeare. Non è dunque per coincidenza che le élite metropolitane di New York e Londra, giustamente turbate dal trumpismo imperante come dal nazionalismo targato Brexit, ricorrono al Bardo per mettere in guardia sul pericolo corso da una democrazia odiosamente sottratta al loro oligopolio. Il colpevole si chiama naturalmente populismo, una delle parole-feticcio dell’era corrente. “Uniti” ormai solo di nome, Stati e Regno stanno interrogandosene in mille modi. E il teatro non è che uno di questi. Il “Giulio Cesare” di Shakespeare è un dramma che da quattrocento anni si presta più egregiamente di altri a una simile indagine. È un testo sul potere del potere, dell’ambizione, della retorica, sulla cospirazione, il tirannicidio e la genesi della tirannia. Shakespeare lo scrisse in una congiuntura storica del regno di Elisabetta I, al termine del quale si apriva un vuoto pericoloso e segnato dalla paura, dal sospetto e dalla censura. Un crocevia la cui importanza echeggia più che mai ora che le due sedi centrali del mondo libero, la Casa Bianca e Downing Street, sono investite da un duplice turbinio che ne conferma la “special relationship”. La prima, complice l’ormai celeberrima passione di Donald Trump per i tweet, pare un agrumeto siciliano i cui rami diffondono politica interna ed estera in forma di cinguettii mattutini; proprio mentre, tra le pareti della seconda, echeggiano nervosi i tacchi leopardati di una heresa May trafelata, inconcludente e alle prese con il caleidoscopico dilemma Brexit. Le ragioni, come anche le conseguenze, di tanto tumulto sono invariabilmente individuate nel populismo, temibile Godzilla che ciclicamente emerge dal proprio sonno secolare per mettere alla prova, temprare e alla fine confermare l’insostituibilità inoppugnabile delle istituzioni democratiche. In entrambe le situazioni, un capolavoro come “Giulio Cesare” – dove la dimensione politica della condizione umana trova validità imperitura e le scelte delle élite scatenano spesso incontrollabili e nefaste conseguenze -, pare fatto apposta per toccare nervi scoperti. È successo la scorsa estate al Central Park di New York, quando la messa in scena di Oskar Eustis e la sua Public heatre, completa di assassinio di un Cesare non casualmente biondo e arancione, ha provocato gli strilli della destra, amplificati da Breitbart e Fox News. Inorriditi alla vista di debosciati attori liberal che inneggiano all’assassinio del palazzinaro-presidente, i paladini della alt-right hanno provocato il precipitoso voltafaccia di alcuni grossi sponsor dello spettacolo, come Delta Airlines e Bank of America. Ma l’arruolamento di Cesare per ammonire la plebe circa i pericoli della democrazia plebiscitaria raggiunge vette particolari nella Londra anti-Brexit: in questa capitale improvvisamente eurofila dove l’alta finanza, pur di non veder striminzire i propri dividendi, non esita a mettere sui propri altari gli ex-voto di perfetti sconosciuti come Altiero Spinelli e Jean Monnet. Sotto la potente direzione di Nicholas Hytner, peso massimo del palcoscenico in lingua inglese, già direttore del National heatre, amico e collaboratore di Alan Bennett, “Julius Caesar” è lo spettacolo da vedere a Londra in questo momento. Il Cesare di Hytner spunta tutte le caselle della contemporaneità: nel Bridge heatre, il nuovo ambizioso spazio presso Tower Bridge da lui diretto e fondato di recente, parte del pubblico è “scritturata” come plebe, partecipando all’azione, stando in piedi come in una piazza romana, gridando, spostandosi, sdraiandosi per terra. Niente toghe, porpora o calzari: tutto è rigorosamente contemporaneo, quello che le locandine deinirebbero come un autentico «assalto ai sensi». Lo spettacolo inizia con una band che suona a tutto volume un pacchiano pezzo rock come “Eye of the Tiger” seguita da “Seven Nation Army” dei White Stripes: che in Italia è un cantico nazionalpopolare – e non populista – per eccellenza, mentre in Gran Bretagna è l’inno uicioso del Labour di Corbyn l’estremista: e infatti le bandiere intorno sono tutte rigorosamente rosse. Reduce dalle vittorie galliche, e interpretato dal veterano David Calder, Cesare entra in scena spavaldo, lanciando un cappelletto da baseball rosso in mezzo all’entusiasmo del popolino, proprio come farebbe l’attuale presidente americano. Ma attenzione, sembra ammonirci Hytner, a concentrarsi solo sulla destra. L’uso politico del (brutto) rock vorrebbe farci rivolgere pensosi lo sguardo alla memorabile comparsata dello stesso Corbyn su un altro palcoscenico: quello del festival di Glastonbury la scorsa estate, quando il pubblico composto da potenziali suoi nipoti proruppe spontaneamente nell’inno «Oh, Jeremy Corbyn» sulle note del succitato brano dei White Stripes. Gli opposti estremismi insomma, gli stessi di cui l’Italia è diventata doloroso laboratorio. Ovviamente a fine spettacolo è possibile comprare gadget a tema – magliette, cappellini, spillette – tanto per confondere un po’ le acque fra l’ammiccamento metaforico della regia e il modello di business: il Bridge è un teatro commerciale che si sostiene grazie a donazioni di privati e vendita di biglietti, ed è costato una quindicina di milioni di euro. Marco Antonio (interpretato da David Morrissey) indossa una tuta da ginnastica acetata che ricorda la gioventù povera di “housing estate” come la tragicamente nota Grenfell Tower. Cassio invece è diventato di genere femminile (Michelle Fairley), una licenza al cast tutto maschile della versione originale che obbedisce a un’altra prepotente urgenza dell’attuale Zeitgeist. Ma il pezzo forte della serata è la sua star, il lucido e assieme tremebondo Bruto di Ben Whishaw, tragica figura d’intellettuale occhialuto che nell’ossequio eccessivo di teoria e valori sarà doppiamente soggiogato: dagli eventi come dalla formidabile oratoria di Marco Antonio. È l’unica star nel senso extra-teatrale, cinematografico: ha al suo attivo molti film oltre che il ruolo di Q, il lemmatico procacciatore di gadget mirabolanti nella filiera 007. Nell’approccio al suo ruolo, Whishaw ha detto di essersi ispirato alla figura di Tony Blair, in particolare alla ideistica convinzione di essere nel giusto che avrebbe portato l’allora premier laburista alla disastrosa e criminale invasione dell’Iraq. Bruto, un vanitoso accademico repubblicano che vuole salvare Roma dal precipizio verso la tirannide (a un tratto firma anche uno dei suoi libri per un fan), in Italia diventerebbe facilmente un cattivo maestro, una igura patetica il cui astratto rigore ideologico trova fatale compimento in uno spietato cretinismo omicida.

Whishaw, la cui corporea esilità presenta una sida ulteriore al ruolo, diventa meno credibile quando accarezza il calcio di una pistola: l’arma dell’omicidio è da fuoco e non da taglio, in linea con la modernità di tutta la produzione. Hytner spara tutte le cartucce in suo possesso per svecchiare un testo senza età. Fonde il modello di business di Ryanair (al “viaggiatore-bigliettaio di se stesso” corrisponde il pubblico pagante che diventa attore) con certo teatro d’avanguardia ormai vintage, e richiama perino l’esperienza del gaming: il ricorso all’elemento immersivo che lega pubblico e attori è stato lodato particolarmente dal pubblico più giovane. Le due ore filate di spettacolo passano veloci in mezzo al plauso generale di pubblico e critica, comprese le parti delle battaglie considerate le meno efficaci da un punto di vista della tensione scenica. Nelle parole del regista: «Non è l’approccio intellettuale e, se vogliamo, razionale di Bruto a convincere la folla, ma quello emozionale di Antonio, basato meno sui fatti o sulla verità, che parla alle viscere». Per poi quasi schermirsi: non è tanto sul leader populista che si basa la regia, «quanto sull’irriconciliabile scontro fra due modi di guardare all’organizzazione della società e sul caos conseguente all’incapacità dei leader di risolvere le proprie differenze e di comprendere il modo migliore di sottoporre i propri argomenti al resto del popolo». Ma attenzione a non sottovalutare, in mezzo a tanta modernità un virtuosistico, e altrettanto forte, richiamo registico alla filologia: dopotutto il pubblico seicentesco del Globe assisteva agli spettacoli in piedi e per ore, spesso anche sotto la pioggia. Ormai è dalla crisi economica del 2008 che il cosiddetto populismo è tornato ad aggirarsi, non solo per l’Europa, ma per il globo intero. Per essere uno spettro, sembra in troppo tangibile, praticamente in carne, ossa e tastiera. Come ha brillantemente notato Marco D’Eramo, nessuno si proclama populista, non è un’autodefinizione: è un termine peggiorativo che punta quasi esclusivamente a stigmatizzare l’inferiorità socio-culturale di chi se lo vede affibbiare. E la ricorrenza, ormai petulante, di questo termine – classista, un filo borioso, utile a definire chi lo usa più e meglio di chi vorrebbe etichettare – non ne è certo l’unico segnale. Se nel dibattito corrente dei media tradizionali l’appellativo è usato a ogni piè sospinto per bacchettare la volgare tracotanza del “popolo bue” – reo di volersi appropriare dell’istituto democratico strappandolo alla condiscendente civiltà e civismo degli “optimates” salvo poi precipitare puntualmente e inesorabilmente nel dispotismo – era solo questione di tempo prima che il teatro facesse propria quest’esigenza, come questi due spettacoli felicemente dimostrano. Se i grandi classici (altro temine “classista”) sono divenuti tali, è perché contengono i tipi ideali di una tragedia umana che sembra declinarli ciclicamente. E non è per nulla esagerato affermare che, da soli, il teatro greco, quello elisabettiano e la commedia dell’arte potrebbero tranquillamente riassumere certi tempi e luoghi ricorrenti della nostra vicenda terrena. Nella loro magistrale sintesi di universale e particolare continueremo a specchiarci nei secoli a venire. «Ogni storia è storia contemporanea», insegnava giustamente don Benedetto Croce. Vale lo stesso per il teatro. Come ci ricorda Shakespeare: ogni suo dramma è un dramma contemporaneo, e tutto il mondo è un palcoscenico.

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