Com’è doloroso l’ #amore che scende dall’ #Olimpo
Da #Orfeo e #Euridice a #Cassandra, da #Psiche a #Giasone: l’analisi di una passione che toglie la libertà ma ci dà senso
di Ernesto Ferrero (La Stampa TuttoLibri 29/10/16 )
Come già sapevano Platone e Vico, i miti utilizzano un linguaggio figurato e metaforico per raggiungere verità essenziali in modi facilmente accessibili: racconti favolosi, archetipi con i quali gli uomini, travolti da forze incontrollabili, cercano di dare un senso al proprio precario stare al mondo. Che i miti, quelli veri (non quelli fasulli d’oggi, gestiti dal marketing) parlino di noi e a noi, e le scienze dell’anima vi possano attingere materiali illuminanti, è parso chiaro a tanti autori del ’900, da Rilke a Kerényi, da Jung a Graves e Hillman, da Borges a Dürrenmatt e Cortázar, da Detienne a Vernant e Vidal-Naquet, Pavese, Calasso…
Alla loro sterminata polivalenza attinge adesso anche Paola Mastrocola. Nel suo nuovo libro, dal suggestivo titolo L’amore prima di noi, ha messo a frutto una sua passione ventennale e trovato un timbro di voce cui il lettore si abbandona subito con piacere. Motivo conduttore l’amore nelle sue varie, perturbanti declinazioni, tutte nel segno di un destino doloroso che piomba dall’alto: predazione (Europa, Persefone), ombra (Orfeo e Euridice, Elena, Eco e Narciso), ossessione possessiva (Pasifae, Fedra), fuga (Apollo e Dafne), sguardo (Psiche, Atteone), divieto infranto (Adone), viaggio compulsivo (Teseo e Arianna, Giasone e Medea), segreto (Ares e Afrodite), dono (Cassandra, Calipso).
I nudi fatti che ci pare di conoscere da sempre ammettono una nebulosa di spiegazioni. Nei miti nulla è mai, nulla deve essere come appare. Ogni apparenza inganna, è una trappola che scatta puntuale. Alla Mastrocola interessa proprio riempire con la scrittura gli spazi bianchi del non detto che ogni storia offre; presta le nostre parole ai suoi eroi affinché ci vengano restituite cariche di un senso cifrato che ancora non conoscevamo. Nessuno sa perché Arianna abbia consegnato la patria e se stessa a Teseo, quali patti, gesti e parole siano corsi tra Ippolito e Fedra, tra Apollo e Cassandra che gli rifiuta il suo amore, tra l’infelice Minotauro prigioniero del Labirinto e il giovane Icaro, figlio dell’architetto Dedalo che l’ha costruito: il loro dialogo immaginario resta tra le pagine più intense del libro.
Allo stesso modo, suonano nuove e rivelatrici le parole che Euridice rivolge a Orfeo, che volgendosi a guardarla, non sappiamo quanto inconsciamente, la condanna a restare nell’Ade: «Se ti seguissi, mi riporteresti alla solita vita, giornate che finiscono e ripartono, e alla fine ci lasciano invecchiati, di nuovo sull’orlo di lasciarci. L’amore è lontananza, si nutre di distanze impercorribili. Non ho bisogno di vivere con te. In questo buio dove non ti vedo e non ti ho, è perfetto amarti. Fare a meno di te è l’amore».
Il libro pullula di domande come questa e ne vibra in continuazione. È davvero un errore credere, come fa Psiche, che la felicità non possa esistere se non è condivisa? Amare è andare a vivere in un paese straniero, come si chiede Medea? Che cos’è lo speciale rapporto che si crea tra inseguitori e inseguiti, tra cacciatori e cacciati? Eterni adolescenti costretti ad affrontare dure prove iniziatiche, gli eroi e le eroine del mito imparano che amore e morte sono fratelli. Forse solo la prova suprema del congedo rappresenta il momento rivelatore che ci abbaglia e ci proietta in una dimensione superiore. Ci possiamo conoscere solo nei dilemmi senza soluzione che pone ogni tragedia. La stessa bellezza può diventare una prigione (Elena, Adone, Narciso). Paradossalmente, suggerisce la Mastrocola, gli dei invidiano agli uomini la speciale capacità che hanno di godere intensamente i doni della vita proprio perché sono effimeri. Negazione del Tempo, l’immortalità è una lunga noia intollerabile. Travolti dai capricci degli dèi, sottoposti a prove estenuanti, agitati dal demone del desiderio, gli eroi del mito vivono e ci parlano, diventati a loro volta immortali, dall’alto della dignità stoica che si sono conquistati.