#Schliemann, la scoperta di #Troia come un #reality televisivo

Il celebre archeologo tedesco seppelliva i reperti per poi poterli “ritrovare”

di Vittorio Sabadin (La Stampa 15/7/15)

Heinrich Schliemann è stato il più grande degli archeologi. Ha scoperto le rovine di Troia, dissotterrato il Tesoro di Priamo e trovato a Micene la maschera funebre d’oro di Agamennone. Infaticabile, mosso solo dalla sua passione e dalla fede nei testi di Omero e di Pausania, ha svelato al mondo la civiltà ellenica, della quale prima si aveva solo una vaga, romanzata idea.

Da più di un secolo, in ogni scuola si racconta questa storia e il nome di Schliemann è indissolubilmente legato a quelli di Omero e degli eroi dell’Iliade. Ma le cose non sono andate proprio come si pensa, e molti studi più recenti sembrano giustificare le critiche che già all’epoca degli scavi in Anatolia e in Grecia erano mosse all’archeologo tedesco.

Soprattutto gli inglesi ce l’avevano con lui: tre eminenti colleghi come Sir Charles Newton, Percy Gardner e Alexander Stewart Murray, nel commentarne le imprese, avevano sentenziato: «Chi ha nascosto, può trovare». Anche i tedeschi non erano teneri: Ernst Curtius, che scavò Olympia, lo aveva definito «schwindler» e «pfuscher», un imbroglione e pasticcione.

Un pasticcione Schliemann lo è stato certamente, e separare i fatti dalle interpretazioni non era il suo forte. Se trovava una bella notizia da divulgare, non la rovinava quasi mai con la verità. Tutta la sua vita è stata un pasticcio: nato nel 1822 a Neubukow da un pastore luterano, da ragazzo voleva andare in America, ma naufragò subito davanti all’Olanda. Si fermò ad Amsterdam, poi arrivò a Sacramento a prestare soldi ai cercatori d’oro; andò in Russia dove sposò la prima moglie, Ekaterina; poi in Crimea, per trafficare in zolfo e piombo da vendere all’esercito russo e creare, grazie alla guerra, la sua immensa fortuna.

Se vivesse oggi, Schliemann farebbe carriera nel campo del marketing o della pubblicità. Era insuperabile nel creare immagini forti, che tutti potessero ricordare subito, e nell’adornare situazioni reali con un po’ di credibile fantasia. Fu lui stesso a modellare la propria leggenda fin dai primi anni di vita, narrando che era stato suo padre a fargli scoprire i versi di Omero, e che l’incontro con un ubriaco che recitava l’Iliade gli aveva indicato la missione da compiere.

Liberatosi con il divorzio dalla pedante e lamentosa Ekaterina, Schliemann aveva sposato una diciassettenne greca invaghita come lui degli eroi omerici, Sophia Engastromenou, la compagna giusta. Quando arrivò nel Nord-Est dell’Anatolia, sulla costa del Mar Egeo, scoprì che altri avevano avuto la sua stessa idea. Frank Calvert, un espatriato inglese appassionato di archeologia, scavava già da sette anni la collina di Hilsarlik e credeva così fermamente di poter trovare i resti di Troia che la sua famiglia aveva acquistato otto chilometri quadrati della cima del colle, per lavorarvi in tranquillità.

Nello stesso anno in cui Schliemann nasceva, il geologo scozzese Charles Maclaren aveva indicato Hilsarlik come il possibile luogo della città omerica, ma quando arrivò nella zona, Schliemann scavò più a valle, a Pinarbasi, dove non trovò quasi nulla. Decise quindi di collaborare con Calvert, che più giovane, meno ricco e meno colto di lui, accettò di fargli da assistente.

Nel luogo in cui sono stati trovati i resti di Troia ci sono testimonianze di dieci agglomerati urbani. Il più profondo, «Troia I», risale al 3000 a. C.; il più elevato, «Troia X», all’epoca bizantina. Schliemann non scoprì la Troia di Omero: ci passò attraverso senza riconoscerla (è al livello di «Troia VII») per concentrarsi su «Troia II».

La sua foga e il suo desiderio di riuscire erano tali che non esitò a farsi largo con la dinamite, distruggendo non solo reperti che riteneva secondari, ma danneggiando anche la stessa città che cercava. Il classicista americano Kenneth W. Harl ha detto che i suoi metodi di scavo erano «così rozzi da avere fatto a Troia quello che i Greci non erano riusciti a fare, radendone al suolo le mura».

Mancava però qualcosa che rendesse quello scavo indimenticabile. L’ultimo giorno dei lavori, Schliemann fece allontanare con una scusa tutti gli operai. Raccontò poi di avere trovato con la moglie Sophia una cassa di rame piena di gioielli: era certamente il tesoro di Priamo, che il re aveva nascosto all’avvicinarsi dei Greci e che conteneva due splendidi ornamenti d’oro, «i diademi di Elena». Fu Sophia, raccontò l’archeologo, a portare via avvolti in uno scialle gli 8750 oggetti preziosi rinvenuti. Ma non era vero: Sophia quel giorno si trovava ad Atene, ai funerali di un parente, e quello non era il tesoro di Priamo, vissuto almeno mille anni più tardi e cinque strati sopra, né i gioielli erano mai appartenuti a Elena.

Qualcosa di simile accadde qualche anno dopo a Micene, quando Schliemann, seguendo questa volta le indicazioni di Pausania, cercò all’interno delle mura le tombe dei re Atridi. Scoprì cinque loculi e subito scrisse a re Giorgio di Grecia di avere individuato le sepolture di Agamennone, Eurimedonte e Cassandra, uccisi da Clitemnestra e dal suo amante Egisto.

Durante gli scavi si assentò per due giorni e, quando tornò, trovò subito in una tomba una maschera d’oro di particolare bellezza: era sicuramente disse – quella di Agamennone. Da trent’anni si discute se si tratti di un falso e i sospetti si concentrano sulla barba e sui baffi, assenti nelle maschere funebri dell’epoca. La barba scende sotto il mento come un prolungamento delle basette, e uno dei baffi è a manubrio, un’acconciatura tipica degli uomini di potere dell’800: con un cilindro e una pipa, quell’Agamennone potrebbe davvero sembrare un impomatato principe prussiano. In ogni caso, anche questa volta le datazioni di Schliemann si sono rivelate inesatte: le tombe sono più antiche di 300 anni e non c’entrano nulla con il re che guidò i Greci contro i Troiani.

Schliemann morì a Napoli il 26 dicembre 1890. Lo trovarono agonizzante a terra per strada, tra via Toledo e piazza del Plebiscito, il giorno di Natale. Mario La Ferla, giornalista dell’Espresso e autore di decine di inchieste, ha avanzato in un libro l’ipotesi che sia stato assassinato dalla mafia trapanese, per avere violato presunti accordi sulla vendita di reperti trovati a Mozia. Se avesse potuto scegliere come narrare la sua fine, forse anche Schliemann avrebbe scelto questa versione: non bisogna mai rovinare una bella storia con la verità.

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