Sole 24 Ore 04/07/2004 

#AlessandroSchiesaro , Ditelo in “Latinorum”

#latino  

 

“Ancora oggi non posso vedere un ablativo assoluto o un passaggio al discorso indiretto senza che mi scendano dagli occhi lacrime di felicità”. Nelle quattrocento pagine che Françoise Waquet dedica alla vita del latino e dei suoi studi nell’arco di mezzo millennio è questa l’unica dichiarazione, inaspettata e idiosincratica, di amore per quella lingua. Mary McCarthy resta però sola nell’affidare alla sintassi latina un’emozione privata: la storia del latino, il “segno europeo” cui inneggia de Maistre, è piuttosto storia di slanci eruditi ed empiti universalistici, di eurocentrismo e assolutismo, di rigide demarcazioni sociali, storia pubblica e simbolica per eccellenza. La scuola europea ne sancisce almeno fino al crollo dell’Ancien Règime il primato assoluto, contro il quale ben poco possono le lingue nazionali, ma neppure il XIX fa vacillare il primato del latino. È solo in anni recenti, soprattutto dopo il ’68, che si apre un periodo di difficoltà e disagio, in cui i meriti (e demeriti) di una formazione imperniata su una lingua da museo sono vagliati con minor timore reverenziale. Anche perché, nel frattempo, la Chiesa di Roma rinuncia ad ancorare al latino il suo ruolo di chiesa universale e autocratica. All’unicità del potere corrispondeva, nel lucido ragionamento di de Maistre, la solenne unicità del linguaggio, lo stesso in ogni tempo e a ogni latitudine, tanto più adatto all’ufficio liturgico quanto più impervio alla comprensione diffusa. Negando a Metodio il permesso di usare lo slavone a messa, il papa Stefano II affermava già nell’885 che “non senza ragione l’Altissimo ha voluto che la Sacra Scrittura rimanesse segreta in certi suoi luoghi, poiché, se fosse apparsa chiara a tutti, forse sarebbe stata meno rispettata e più soggetta a trascuratezza, oppure falsamente interpretata da persone di bassa cultura”. Conta – lo ribadirà con fermezza il Concilio di Trento – la fede che accompagna il canto rituale, fede aumentata, non intaccata, dal suono mistico e suadente di parole non trasparenti. La comprensione autonoma del testo non è necessaria, ed è anzi meglio demandarla all’ esegesi (in volgare) del sacerdote-demiurgo.

Le caratteristiche in cui la Chiesa individua acutamente la forza del latino – universalità, fissità, maestà – ne sostengono per secoli il ruolo anche in altri settori, non sempre a fronte di una perdurante utilità pratica. Nel coacervo di lingue e dialetti dell’Europa il latino si presta davvero, almeno in alcune fasi e zone, a colmare la distanza che separa le elites, e prima del francese è il latino la lingua della diplomazia, funzione che non a caso sopravvive più a lungo nel crogiolo plurilingue della Mitteleuropea. Ma, per esempio, anche nel campo della trasmissione del sapere scientifico le indagini minuziose di Françoise Waquet intaccano l’illusione di un vero impero universale del latino, difeso a spada tratta – più che altro – da editori ansiosi di vendere libri fuori dai confini nazionali, eppure già seriamente in crisi tra XVII e XVIII secolo.

In realtà il latino perpetua se stesso per secoli soprattutto come pegno di un legame con il passato presto trasfigurato in simbolo, talora sul piano elevato dell’ identità culturale, talora a scopi più spiccioli: per i tutors inglesi dell’ ottocento la difficoltà stessa con cui i giovani allievi decodificano un linguaggio astruso è allenamento per le durezze della vita, mentre nella Germania nazista non si dubita che il latino sia strumento di disciplina mentale e morale, e nell’Italia 1939 esso è- tout court – utilmente “anti-marxista”. Nel dopoguerra, in Italia e in Francia, la difesa del latino si arricchisce di tinte antiamericane, ostenta un’orgogliosa differenza. La vittima principale di queste e altre argomentazioni “a favore” del latino – sorprendentemente omogenee in luoghi e tempi diversi – è naturalmente il latino stesso, a lungo subìto e mai davvero amato. Non solo perché pochi studenti, nonostante l’esempio autorevole di Mary McCarthy, sono propensi a promuovere gli ablativi assoluti a madeleines, ma soprattutto perché nel nome della continuità culturale e dell’esemplarità morale si perde fatalmente di vista l’alterità di un mondo e di una letteratura, quest’ultima spesso concentrata in un canone ristretto che per molto tempo si è voluto esente dalle oscillazioni del gusto e l’imprevedibilità dell’analisi critica. Abbandonare l’illusione della continuità e il suo ingombrante bagaglio di simboli lascerà il latino finalmente libero di essere amato – e odiato – per quello che è. 

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