L’antica #strada dei #Romani come luogo di integrazione

Stefano Bucci La Lettura, 9 aprile 2017 #viaEmilia

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La direttrice dei Musei civici di Modena Francesca Piccinini definisce la via Emilia «asse unificante di un’intera area geografica, fantastico strumento di integrazione, di dialogo, di cultura tra popolazioni». Dunque, non qualcosa di antico, ma piuttosto di vivo e contemporaneo: forse appunto per questo l’evento che aprirà a Modena i festeggiamenti per i 2.200 anni lungo la via Emilia (www.2200anniemilia.it) sarà Varchi nel tempo. Tra archeologia e street art 3D, dal 12 al 14 maggio, una sorta di festival della street art «ricostruttiva» (qualcosa di assai simile alla storia in versione 3D) che farà da ideale anticipazione della grande mostra Mutina Splendidissima in programma dal 25 novembre all’8 aprile 2018, al Foro Boario: la citazione arriva da Cicerone che aveva definito Mutina appunto firmissima et splendidissima, mentre Francesco Guccini nella sua Piccola città del 1972 vedeva Modena, quella moderna, costantemente in bilico tra la via Emilia, appunto, e il West.

Luigi Malnati, soprintendente di Bologna ribadisce l’unicità di questa strada («lunga e diritta» verrebbe da dire per citare ancora Guccini): «La via Emilia è stata la via che ha romanizzato il territorio, senza colonizzarlo passivamente, piuttosto integrandolo grazie a quel console Marco Emilio Lepido che seppe muoversi con grande abilità tra progressisti e conservatori». Anche Bologna (come Modena, Parma, Reggio Emilia e Castelfranco Emilia con il suo museo archeologico) festeggerà la via Emilia: con la mostra Medioevo svelato. Storie dell’Emilia-Romagna attraverso l’archeologia (dal 24 novembre al 2 aprile 2018, al Lapidario del Museo civico medievale, in pratica una contemporanea con la mostra modenese, curata da Malnati con Sauro Gelichi).

Questo è, in qualche modo, una sorta di invito al viaggio, alla scoperta delle città romane lungo la Via Aemilia: Mutina e Parma (colonie fondate nel 183 a.C.) e Regium Lepidi istituita come forum in quegli anni. Un itinerario (fatto anche di spettacoli teatrali, performance, conferenze, proiezioni di film) attraverso un’economia florida di merci, genti, idee, competenze, e sensibilità differenti, all’insegna «di una cultura – ribadisce Piccinini – la cui cifra è da sempre l’accoglienza».

Il progetto è promosso dai tre Comuni di Modena, Reggio Emilia e Parma, dalle soprintendenze di Bologna e Parma, dal segretariato regionale del ministero dei Beni culturali per l’Emilia-Romagna e dalla Regione Emilia-Romagna. Tra gli appuntamenti di Reggio Emilia: Lo Scavo in Piazza. Una casa, una strada, una città (fino al 31 agosto) che «documenta la storia di un quartiere suburbano, alla luce degli scavi archeologici in piazza della Vittoria», mentre La buona strada. Regium Lepidi e la via Aemilia (23 novembre-8 aprile), documenterà «la fortuna della strada dagli antefatti in età preromana sino al Medioevo e riporta l’attenzione ancora una volta sulla figura del suo costruttore». Tra gli eventi parmigiani ecco invece le visite guidate «Fondazione Città di Parma 183 a.C.» sulle tracce della Parma romana; gli incontri de Il Battistero si svela, dedicati a uno dei monumenti simbolo della città; la mostra Archeologia e alimentazione nell’eredità di Parma romana (2 giugno-16 luglio curato dal gruppo archeologico Vea alla galleria San Ludovico), che ripercorrerà le origini della cultura alimentare parmense.

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Con l’invasione dell’Italia da parte dei Cartaginesi di Annibale (Seconda guerra punica, 218-202 a.C.) i Romani avevano dovuto abbandonare la Gallia Cisalpina, o Pianura Padana. Uno dei problemi che i politici e i generali di Roma dovettero risolvere dopo la vittoria su Cartagine fu quello del rapporto con le tribù galliche, come i Boi e gli Insubri, che erano passate dalla parte di Annibale nella speranza di riottenere la propria indipendenza. Dal 191 a.C., però, scomparve ogni pericolo di guerra da parte dei Galli cisalpini e, forse ispirato anche da considerazioni di utilità pratica, il Senato adottò criteri di grande mitezza nei confronti di quei popoli, che, benché sconfitti, ottennero condizioni generose e manifestarono la loro riconoscenza rimanendo fedeli a Roma.

Come ha dimostrato lo storico Giovanni Brizzi, la via Emilia, tracciata dal console Marco Emilio Lepido nel 187 a.C., non fu costruita come via militaris, per facilitare la penetrazione nel territorio dei Galli, ormai amici di Roma, ma nacque come vettore a congiungere le tre colonie latine di Rimini ( Ariminum ), Piacenza ( Placentia ) e Bologna ( Bononia ). Lungo l’asse viario sorsero nel 183 a.C. – esattamente 2.200 anni fa – sempre per volere di Lepido, le colonie romane di Parma e Modena ( Mutina ). Su una fascia di poche centinaia di chilometri, la strada collegava dunque ben cinque colonie, a ridosso dell’Appennino Tosco-Emiliano, il limes (confine) a sud del quale c’era ciò che allora si riteneva la vera e propria Italia. Modena e Parma rivestirono un ruolo fondamentale e pionieristico nella sistemazione di queste terre: popolose come mai prima, ospitavano fino a duemila famiglie romane ciascuna, a loro volta dotate di appezzamenti cospicui.

In questo modo, in caso di mobilitazione, la via Emilia poteva fornire una forza di almeno tre legioni, baluardo non tanto contro i Galli, quanto contro potenziali aggressioni da Oriente attraverso i Balcani, e a sostegno dell’accesso più vulnerabile, quello costituito dalle Alpi Giulie, presso cui fu fondata nel 181 a.C. la colonia romana di Aquileia. Nel programma politico di Lepido, la via Emilia collegava la terra dei Boi ai grandi scacchieri mediterranei e faceva parte di un complesso sistema difensivo, che voleva evitare in futuro il ripetersi di invasioni sanguinose come quella annibalica. Questa funzione di «frontiera difesa», tuttavia, durò pochi anni: i successi riportati da Roma contro la Macedonia e la Siria crearono presto la convinzione che la Repubblica fosse un’entità dinamica in perenne espansione verso il dominio del mondo. La via Emilia rappresenta dunque anche lo spartiacque ideologico dopo il quale nasce un cosciente imperialismo romano.

Il percorso attuale della via Emilia ricalca sostanzialmente il tracciato di epoca repubblicana, poi restaurato in epoca augustea, anche se, nel frattempo, molti ponti sono crollati e il corso dei fiumi si è spostato. La strada aveva il suo punto di partenza a Rimini, al termine della via Flaminia proveniente da Roma, e da essa, come da una gigantesca spina dorsale, partivano vertebre di collegamento con il nord, o con il versante appenninico. Nel periodo imperiale fu costruito un troncone che prolungava la via fino ad Aosta ( Augusta Praetoria ), passando per Milano ( Mediolanum ), Novara ( Novaria ), Vercelli ( Vercellae ), Ivrea ( Eporedia ), e Verrès. Da Parma e Reggio Emilia si poteva raggiungere Brescello, importante porto fluviale sul Po, mentre da Modena la via Emilia Altinate portava a Verona e ad Aquileia; alternativamente, Aquileia si poteva raggiungere da Rimini seguendo la via Popilia, lungo la costa passando per Ravenna.

A testimonianza di questi tracciati rimangono i cippi miliari, colonne poste lungo le strade romane che riportavano la distanza in miglia (un miglio romano equivale a 1.480 metri circa) da Roma o dalla città più vicina, insieme al nome del magistrato o dell’imperatore che aveva fatto costruire o restaurare la strada. Per la maggior parte della sua lunghezza la via Emilia era fatta di ghiaia e ciottoli pressati nel terreno, ma nelle città si conservano vari tratti di strada lastricati. Ai lati della strada, nelle zone extraurbane, sorgevano spesso necropoli o monumenti sepolcrali isolati, con i quali i ricchi cercavano visibilità e memoria. Sul percorso sorsero poi una serie di fora, empori commerciali sul sito di villaggi gallici, come Forlì ( Forum Livii ), Forlimpopoli ( Forum Popilii ), Imola ( Forum Cornelii ), e Faenza ( Faventia ). Dopo avere attraversato Bologna, in cui coincide con il decumano massimo (il principale asse cittadino est-ovest), la via Emilia raggiungeva i Campi Macri, descritti da Strabone come una zona fiorentissima dal punto di vista economico, dedita all’allevamento degli ovini e alla tessitura di lane pregiate, ma anche alla produzione di ceramica e alla viticoltura. Fulcro di questo territorio era la colonia di Modena, descritta da Cicerone come «la più forte e splendida colonia del popolo romano». La via si dirigeva successivamente verso Reggio Emilia, formando il decumano della città, per poi raggiungere la «gallica Parma», che Marziale esalta per la produzione di lana. Dopo aver fatto una curva – eccezionale nel percorso per lo più rettilineo – per toccare Fidenza ( Fidentia ), la strada terminava a Piacenza, fondata insieme a Cremona, nel 218 a.C. a presidiare il punto d’incontro fra il Po e gli Appennini presso Stradella.

Se si sorvola l’Emilia Romagna (come anche in altre regioni italiane) si vede ancora bene la centuriazione romana, cioè la divisione del terreno in un reticolato di campi a maglia quadrata di circa 70 metri per lato (100 di questi heredia di circa mezzo ettaro componevano la centuria), divisi in colture e pascoli che si alternano in modo razionale. La centuriazione comportò un imponente disboscamento della Pianura Padana, e la bonifica delle zone paludose, a creare nuovi campi per i coloni. In questa radicale trasformazione del paesaggio, la via Emilia, attorno a cui si orienta la centuriazione, assunse la funzione di arteria commerciale che distribuiva prodotti in tutto l’impero. Sul suo percorso sorsero numerose ville rustiche, impianti produttivi più che residenziali, spesso sede di attrezzature proto-industriali come macine, mulini, torchi, e oggi considerate il fulcro dell’economia romana. Strabone afferma: «Nei luoghi intorno a Modena e al fiume Scultenna (Panaro) si produce una lana morbida e molto più bella che in ogni altro sito». E Columella esalta la qualità delle lane ottenute dalle greggi dei Campi Macri fra Parma e Modena. La viticoltura della zona è decantata da Varrone, che esalta la regione come una delle più produttive del mondo: «Nella campagna di Faenza ogni iugero (2.500 metri quadrati, da jugum, la quantità di terra che poteva essere arata in un giorno da una coppia di buoi) rende trecento anfore di vino, e per questo le viti sono lì chiamate trecenarie». La prosperità di questa regione, che si chiama ancora come l’antica strada e risuona nei nomi beneauguranti di molte sue città, colpisce per la lunga durata.

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