#Note in #classe. L’ora della svolta

ANTONELLA DE GREGORIO (Corriere,11/4/17) #musica

A esiliarla ci pensò Francesco De Sanctis – ministro dell’Istruzione oltre che letterato – secondo il quale la musica, insieme al ricamo, era «arte donnesca». Iniziò da lì, di fatto, l’estromissione della musica, pratica e teoria, dalla scuola italiana; la separazione fra conservatori e università; l’analfabetismo nazionale che ha reso le sale da concerto e gli auditorium dei «dopolavoro» della terza età.

Mentre in Austria e Croazia la «grande» musica gode di un pubblico intergenerazionale, in Germania i giovani seguono i concerti di musica classica tanto quanto si recano a teatro o nei musei. Sarà perché in quasi tutti i comuni sono presenti le Musikschulen, senza vincoli di accesso, o perché nella scuola pubblica tedesca l’educazione musicale inizia dall’asilo per proseguire fino all’ultimo anno, con benefici anche per l’industria musicale, che registra continui balzi in avanti, mentre tanti enti lirici e musicali italiani sopravvivono solo con i finanziamenti statali.

La tradizione italianaMa non può esserci sensibilità per la musica «alta» se non viene insegnata nel percorso di studi. «Un Paese con un passato musicale importante come il nostro non può prescindere da questa conoscenza», ha detto spesso Riccardo Muti, artista che più di ogni altro ha dimostrato di avere a cuore l’educazione e la civiltà musicale, perché «suonare insieme è educazione civica, educa alla convivenza civile, a rispettare gli altri». E «la conoscenza della musica rende un popolo migliore, più sensibile». Da De Sanctis a oggi, va detto, la musica è cambiata: si è compiuta una rivoluzione. Discorsi su ritmi e note, strumenti, cori e orchestre sono pratica diffusa in molte scuole, a partire dalle elementari, talvolta anche dalla materna.

E con la delega sulla cultura umanistica approvata venerdì scorso (insieme agli altri decreti legislativi che hanno completato la riforma della Scuola, la legge 107/15), la strada dell’educazione musicale è segnata. Avremo scuole in cui si impara «a leggere, scrivere, a far di conto e a far di canto», secondo un’espressione cara all’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, che dal 2006 anima e presiede il Comitato nazionale per l’apprendimento della pratica musicale (Cnapm). Un organo del Miur che ha prodotto corsi di formazione per 8 mila docenti, in collaborazione con Università, Iafm (Istituti per l’alta formazione musicale), associazioni ed esperti; istituito la Settimana della musica a scuola (a maggio); indetto concorsi e redatto proposte di legge. Com’è stato per il Piano nazionale per la formazione musicale, in parte recepito nella «Buona scuola», che introduce, per la prima volta a pieno titolo, la musica (ma anche teatro, danza e grafica) nell’offerta formativa delle scuole di ogni ordine e grado. Per consentirlo, ci saranno due miliardi di euro all’anno e 2.400 docenti dedicati.

Intanto, un po’ alla rinfusa, a partire dagli anni 70 sono fiorite forme di sperimentazione in tutto il territorio italiano: scuole medie in cui sono entrati strumenti diversi dal flauto dolce, spesso detestato. Laboratori di musica alle elementari, sospinti dalla legge sull’autonomia scolastica (200 finanziati nel ’99, con un fondo «una tantum» di 8 miliardi di lire). Ma anche la riorganizzazione dell’alta formazione musicale. O i nuovi licei musicali e coreutici: 43 nel primo anno di attivazione (2011), 140 oggi, con 10 mila iscritti. «Anni proficui, pur con i tempi lenti della burocrazia – commenta Annalisa Spadolini, flautista, docente di scuola media e referente nazionale del Cnpam —. Il risultato è che oggi abbiamo 2 mila primarie con laboratori di musica, 1.400 SMIM (le scuole medie a indirizzo musicale), 140 licei musicali: il 40% delle scuole italiane che punta sulla musica».

Con luci e ombre. Ci sono eccellenze dove le note e la musica suonata insieme sono strumento di integrazione e motivano i ragazzi. Succede alla Vivaio di Milano, nata negli anni Venti come scuola per i ciechi e cresciuta come modello di integrazione tra allievi vedenti, non vedenti e con altre disabilità, presa a modello oggi anche da insegnanti giapponesi che hanno chiesto di poter «apprendere» la metodologia. Gli alunni qui imparano (anche) a recitare e a suonare: ogni settimana, su 40 ore di lezione, ne dedicano 5 alla musica. «Studiano uno strumento, apprendono l’assemblaggio ritmico, la storia della musica, partecipano all’orchestra e al coro della scuola», spiega la vicepreside, Paola Romanelli.

Socializzazione e inclusioneSettantacinque quelli selezionati ogni anno (su 600 che fanno domanda) «non per avviarli alla professione musicale, anche se tanti proseguono gli studi – spiega —. Puntiamo su socializzazione e inclusione (di 226 iscritti, 38 hanno disabilità) e a una formazione completa degli individui». I docenti sono formati per personalizzare i percorsi di studio sulle esigenze dei ragazzi e per spingerli ad adoperare tutti i sensi, per farli lavorare in gruppo, facendo sì che si aiutino gli uni con gli altri. La pratica musicale «crea un legame equilibrato tra le aree di sviluppo della persona, facilita la confidenza con le proprie risorse, porta a un metodo di studio». Ma per fertilizzare musicalmente il Paese attraverso la scuola, servono laboratori e tecnologie all’avanguardia. Altrimenti, anziché école de la mixité, di chi regala agli altri la cosa più preziosa che possiede, la propria differenza, si trasformano suoni e canto in privilegio di bambini che hanno la fortuna di nascere in famiglie musicalmente colte e benestanti.

«La musica non può appartenere a un’élite. È un diritto per tutti», dice Spadolini. Ma a far fare musica a tutti non basteranno ancora i tantissimi docenti confluiti nel nuovo organico potenziato (2 mila, su 55 mila neoassunti). «Possono fare molto le associazioni di genitori e le reti di scuole».

Progetti nati dal territorio, come «ABC orchestra» della Fondazione La Nuova musica di Milano, per esempio, che da dieci anni porta la pratica strumentale e orchestrale nelle scuole pubbliche, entrata in 3.500 classi del capoluogo e della provincia, ma anche in Liguria ed Emilia Romagna. «I bambini portano qualsiasi strumento abbiano a casa, o ne costruiamo con materiale di recupero. Da subito, grazie a docenti formati per la direzione, li mettiamo in grado di fare attività di gruppo», spiega Anna Mortara, presidente della Fondazione e guida artistica dell’«Orchestra Under 13», che raccoglie dal bacino delle orchestre scolastiche la crema dei pulcini della musica classica.

Oppure progetti nati nelle scuole. Quelle grandi, magari, come l’istituto comprensivo di Baseliano e Sedegliano (Udine): 1.300 alunni su vari plessi, in cinque Comuni: «Una realtà eterogenea, con tanti ragazzi del mondo», racconta Fabrizio Fontanot, 55 anni, da 28 insegnante di musica «fuori dall’ordinario». Diplomato in composizione, strumentazione per banda, laurea in composizione di musica da film, scrive da sé la musica per la banda scolastica nata tra i banchi. 80 elementi («tanti gli strumenti che abbiamo avuto in comodato dal Comune», dice), che hanno optato per il laboratorio musicale (ma potevano scegliere anche teatro, video, cucina, arte) e per due ore a settimana provano brani che diventano concerti che animano la vita cittadina. Per loro e per far comprendere meglio il gesto del direttore d’orchestra, Fontanot ha anche creato un «simulatore bandistico»: un gioco di realtà virtuale che consente agli alunni di «immergersi» nell’orchestra e di provare da casa. Progetto che entrerà nel database che l’Indire, insieme a Miur e Cnapm, sta realizzando: si chiama «Musica a scuola» e raccoglierà su web le buone pratiche nella didattica della musica: contenuti che qualsiasi docente potrà inserire e a cui potrà ispirarsi per replicare le lezioni in classe.

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